Una seria discussione sul profilo e la funzione del Partito democratico deve partire da un’analisi rigorosa della natura e dei caratteri delle due grandi crisi che stanno investendo il paese: la crisi economica e la crisi democratica.
Per quanto riguarda la prima, è superfluo sottolinearne il carattere eccezionale. Quel che va chiarito è che la crisi economica non dipende solo dall’assenza di regole e controlli adeguati sulle banche. Ciò che abbiamo di fronte è l’esaurimento della peculiare forma di regolazione politica dell’economia mondiale affermatasi nell’ultimo trentennio. Un modello fondato sulla crescente integrazione produttiva e finanziaria tra Stati Uniti e Cina, rivolto al sostegno dell’indebitamento dei consumatori americani, e di cui l’unilateralismo della potenza americana costituiva la proiezione politica (mentre l’isolamento dell’Europa ne era la conseguenza pratica). Questo modello è ora investito da una crisi strutturale, che chiude un intero ciclo storico e ci consegna uno scenario incerto.
E’ fin troppo evidente che per un paese fragile e indebitato come l’Italia, l’Europa costituisca il principale baluardo e l’unica credibile prospettiva di ripresa. E che dunque l’accento sulla necessità di uno sviluppo del processo di integrazione che consenta un’adeguata risposta europea alla crisi non debba essere solo il leit motiv della campagna per il rinnovo del parlamento di Strasburgo (insieme alla rivendicazione orgogliosa dell’ingresso nell’euro), ma il filo conduttore di tutta la proposta politica del Pd. Se questo è vero, però, credo che la sua collocazione nel dibattito tra i sostenitori di un più incisivo intervento a sostegno dei consumi e i fautori della prudenza debba essere meditata più attentamente. Non c’è dubbio che un maggior impegno della Germania sul terreno di un sostegno europeo alla ripresa sarebbe altamente auspicabile (anche se di fronte alle incognite dell’economia mondiale e alle spinte ad una divaricazione delle politiche fiscali dei principali paesi europei, che rischierebbe di mettere in pericolo l’esistenza stessa della moneta unica, l’atteggiamento tedesco è forse meno miope di quel che sembra). Sta di fatto che nella situazione attuale la posizione “rigorista” assunta da Giulio Tremonti appare inevitabile, e si colloca oggettivamente in continuità con le politiche perseguite dai governi dell’Ulivo, e anche questo dato dovrebbe indurre a non parlare in modo semplicistico di crisi della destra e del berlusconismo come conseguenza della crisi economica, mentre si sta delineando invece un “nuovo centro”. Quella di Tremonti è una posizione inevitabile non solo perché il nostro debito pubblico non ci consente un intervento analogo per entità a quello francese o inglese, ma anche perché proprio la riduzione del debito è una condizione per lo sviluppo di una vera politica economica dei paesi dell’euro. Ma gli stringenti vincoli di bilancio non escludono, rendendole anzi ancor più necessarie, incisive politiche pubbliche (che potrebbero d’altronde giovarsi anche dell’utilizzo di risorse non conteggiate ai fini dell’indebitamento come quelle del risparmio postale) e il superamento di quell’atteggiamento critico verso il concetto stesso di politica industriale che per troppo tempo ha condizionato negativamente il dibattito italiano. Queste politiche devono però essere orientate prevalentemente allo sviluppo, alla coesione sociale e al superamento del dualismo nord-sud più che a un generico sostegno dei consumi che rischierebbe di risultare inefficace di fronte all’entità della crisi e agli strutturali problemi di competitività del paese.
E’ del tutto evidente che il centrodestra non è in grado di realizzare da solo queste politiche, che richiedono un forte grado di concertazione sociale e politica per ripartirne equamente i sacrifici, per valorizzare e tutelare il lavoro e l’impresa, per mettere al centro il Mezzogiorno. Per questo il Pd dovrebbe proporre un vero e proprio “tavolo per la crisi” aperto alle forze sociali e all’opposizione, per impostare, pur nella distinzione dei ruoli, le linee di fondo di una politica di unità nazionale in grado di affrontare adeguatamente l’emergenza economica.
Si tratta evidentemente di un passaggio estremamente delicato e rischioso, reso ancor più difficile dalle recenti inchieste della magistratura. Ma sarebbe un errore se il Pd accogliesse la tesi secondo cui quella che abbiamo di fronte è una “questione morale”, che per essere affrontata richiederebbe, come ha scritto Ezio Mauro su Repubblica, uno “strappo di innovazione che faccia piazza pulita di vecchi apparati e di metodi ancora più vecchi”. Respingere questa interpretazione non significa negare l’esistenza di un serio problema di qualità della vita democratica e dell’azione amministrativa del Pd. Nell’esperienza di volontariato politico che svolgo nella mia città ho potuto verificare direttamente l’esistenza di chiusure burocratiche, di resistenze al cambiamento e di opacità nella vita democratica interna e nel rapporto tra partiti, istituzioni e società; chiusure e opacità che la nascita del Pd non sembra aver finora superato e anzi ha per certi versi persino aggravato. Ma l’impostazione di Mauro, che peraltro sembra dimenticare come proprio il suo giornale sia stato tra i principali sostenitori del “partito dei sindaci” e dell’autonomia dei territori, non consente di comprendere né la natura del problema che abbiamo di fronte né le sue cause. La cosiddetta “questione morale” è infatti, in realtà, un aspetto di una crisi dello stato e delle istituzioni democratiche (oltre che delle difficoltà politiche del Pd). E questa crisi è la conseguenza dell’incapacità di rinnovarsi dei vecchi partiti, del loro rovinoso crollo, e di una lunga transizione che non ha saputo finora trovare l’approdo di una riforma condivisa delle istituzioni, per costruire finalmente un nuovo sistema politico di tipo europeo. In questa transizione il radicalismo nuovista che ha portato a teorizzare e a praticare, nei partiti e nelle amministrazioni, le virtù dell’elezione diretta, della personalizzazione della politica, della compressione delle assemblee elettive, dell’esternalizzazione delle funzioni amministrative, non è stata solo un fattore di degenerazione, ma ha rappresentato di fatto la condizione e lo strumento della conservazione di gruppi dirigenti in crescente deficit di rappresentanza e di autonomia culturale. In questi anni insomma il vecchio e il nuovo sono andati a braccetto, alimentandosi reciprocamente, e ciò ha impedito di realizzare riforme condivise delle istituzioni e di costruire partiti veri. Questo intreccio tra radicalismo e conservatorismo ha così prodotto localismo senza federalismo, presidenzialismo surrettizio e senza contrappesi, partitocrazia senza partiti. La crisi dell’esperienza amministrativa del centrosinistra, soprattutto nel Mezzogiorno, è figlia di questo perverso assetto politico-istituzionale, e non potrà essere affrontata con scorciatoie e slogan, o somministrando dosi ancora più massicce di quella stessa medicina che l’ha generata. La strada dunque è una sola, e si chiama federalismo fiscale solidale e responsabile; razionalizzazione della forma di governo parlamentare; riforma dell’assetto istituzionale e dei meccanismi elettorali delle regioni; liberalizzazione dei servizi pubblici locali; costruzione e radicamento del Pd sul territorio; applicazione rigorosa di procedure democratiche di selezione dei gruppi dirigenti; adozione di una legge elettorale nazionale coerente con l’edificazione di un sistema dei partiti di tipo europeo e che consenta al Pd di presentarsi per davvero da solo senza doversi trasformare in un cartello elettorale. Perché nessuno mette in discussione l’ambizione maggioritaria del Pd e teorizza una sua permanente minorità da compensare con le alleanze. Il punto è se si vuole fondare questa ambizione su un’ingegneria istituzionale volta a creare un bipartitismo coatto che avrebbe l’unico effetto di rafforzare ulteriormente il “nuovo centro” berlusconiano, o sulla effettiva capacità di espansione del Pd nella società.
Tutto ciò non toglie che non si debba affrontare l’emergenza che si è creata. Certo, occorre respingere ogni giustizialismo e collocare il partito sulla linea autorevolmente indicata dal Presidente della Repubblica: sì alle indagini, no all’impunità e no alle spettacolarizzazioni. Ma è indispensabile dare un forte segnale di coesione, rinnovamento e pulizia. Bene dunque l’attribuzione al segretario di alcuni poteri speciali per affrontare l’emergenza. Al tempo stesso, però, proprio il rafforzamento dei poteri esecutivi del segretario richiederebbe l’esercizio della funzione di garanzia che lo statuto attribuisce alla figura del Presidente del partito. Una funzione che sarebbe utile per garantire la distinzione tra applicazione delle regole e gestione del partito, rafforzandone la coesione. Come è noto, dopo l’elezione di Veltroni questo ruolo è stato offerto a Romano Prodi, che non ha accettato. E tuttavia è evidente che in questo momento difficile c’è bisogno di rinnovamento, ma anche di chiamare in campo le personalità più autorevoli di cui si dispone, a cominciare dal fondatore dell’Ulivo, per salvare e rilanciare il progetto del Partito democratico.