Il 2008 si è chiuso là dove la vicenda politica era cominciata: al primo libro della Repubblica di Platone. Più precisamente: siamo al punto in cui Socrate, disceso al Pireo e ospite del ricco Cefalo, ha finito di chiacchierare con Polemarco, e Trasimaco, il lupo Trasimaco, non vede l’ora di dire la sua sull’argomento in discussione: cosa sia mai la giustizia. E dopo qualche breve schermaglia la dice, senza alcun infingimento: la giustizia è l’interesse del più forte. Ma siccome Socrate fa mostra di non capire, aggiunge: in tutti gli Stati la giustizia è sempre l’interesse del potere costituito, il quale è forte abbastanza perché sia detta giusta sempre la stessa cosa. L’interesse del più forte, per l’appunto.
La confutazione platonica, purtroppo, non è impeccabile. Socrate tenta di dimostrare che siccome ogni arte e ogni autorità sono esercitati nell’interesse di chi è sottoposto a quell’arte, anche l’arte di governo non può non essere esercitata, se è tale, nell’interesse del governato: del più debole, quindi, non del più forte. L’argomentazione però presuppone, invece di dimostrare, che vi sia una giustizia diversa da quella definita dal più forte in ragione del suo interesse: senza un tale presupposto, l’analogia con le altre arti e tecniche non ha alcun fondamento. Si capisce perciò che Platone, benché faccia finta di aver chiuso la partita con Trasimaco nel primo libro, ne scriva poi altri nove per spiegare in cosa mai consista la giustizia, per ciascun individuo e per lo Stato. Senza una simile spiegazione, senza che si sappia cosa è giusto, non vi è arte di governo, non vi è buon governo, e non regge l’analogia con le altre arti e tecniche: rimane in campo il solo Trasimaco.
Ora, chiuso il prologo in cielo: figuriamoci se c’è oggi qualcuno che nutre ancora fiducia nei libri dal secondo al decimo della Repubblica platonica. Figuriamoci se qualcuno se la sente di far propria la celebre tesi platonica secondo la quale finché non governeranno i filosofi non vi sarà giustizia a questo mondo – i filosofi, cioè i detentori autentici del sapere intorno a ciò che è giusto. Proprio per questo siamo però posti ancora dinanzi alla temibile sfida tra Socrate e Trasimaco: o vi è un sapere della giustizia (e ha ragione Socrate), o la giustizia è un affare di potere (e ha ragione Trasimaco). Una traduzione molto prosaica di questa faccenda – una traduzione, come si dice, attualizzante – potrebbe suonare così: o vi è buon governo (si esercita l’arte del buon governo), oppure la giustizia diventerà terreno di lotta per il potere. E dunque: o si sostanzia di giustizia la politica, o si sostanzia di politica la giustizia. E la seconda cosa appare decisamente peggiore della prima.
Naturalmente, nell’Italia di oggi, sembrerebbe di essere lontanissimi dai problemi dell’opinione pubblica ateniese del quinto secolo avanti Cristo. Noi sappiamo bene che le cose vanno tenute distinte: da Montesquieu in poi c’è la separazione dei poteri, di cui invece Platone e i suoi contemporanei poco o nulla sapevano. Un conto sono le leggi più o meno giuste, un altro è la funzione giurisdizionale. Socrate e Trasimaco discutevano in sostanza delle prime, noi della seconda. Che in effetti sta, e di questi tempi non può non stare, nell’agenda politica del Paese: intercettare o non intercettare (e pubblicare o non pubblicare le intercettazioni), separare o non separare le carriere, uniformare o non uniformare i diversi riti processuali, ridisegnare o non ridisegnare uffici e distretti, e via di questo passo. In tutte queste delicate questioni, la bussola ideale è peraltro la stessa per tutti, più o meno: si tratta di assicurare sempre meglio la figura del giudice terzo e imparziale, il rispetto dei diritti delle parti, le garanzie dei cittadini, la certezza del diritto, l’effettività della pena, la celerità dei processi, e tutto quanto la moderna civiltà liberale ci ha consegnato come un patrimonio giuridico irrinunciabile.
Ma come si fa? La bussola non basta: come si passa dai principi condivisi alle soluzioni concrete ed effettive? Ancor prima di discutere in concreto di quale riforma portare all’approvazione del Parlamento, non è inutile chiedersi però chi sia legittimato a farla. Almeno a quest’ultima domanda la risposta è banale. A farla, infatti, non può che essere il parlamento, cui la Costituzione assegna la potestà legislativa. E tuttavia è una risposta di fatto insufficiente, visto che, per quanto sia diffusa l’opinione che qualcosa s’ha da fare, poi di fatto non si fa nulla: ci devono essere di mezzo dei Don Abbondio, se ci si impantana da decenni. Poiché però si semplifica troppo il problema prendendosela con il carattere pavido delle persone, è forse il caso di pensare che la pavidità sia invece un tratto delle forze politiche, e del sistema politico nel suo complesso. Il lupo Trasimaco torna così a minacciare un dibattito democratico incerto e impaurito. Le sue parole tornano a farsi sentire: la giustizia è l’interesse del più forte. Si vuole la riforma per allineare l’esercizio della giustizia alle esigenze del potere costituito, dice Trasimaco. Il dilemma, come si vede, non è affatto superato. E se ne viene fuori non semplicemente rivendicando il potere legislativo, intestato al parlamento, di fare la riforma. Poiché per l’appunto è soltanto un potere, per quanto legittimo, mentre invece quel che si tratta di esibire, come Socrate al Pireo, è la legittimazione più alta di un sapere che sia riconosciuto come tale. Solo quando la politica ritroverà cioè l’autorevolezza di dire ciò che è giusto per il paese, ed è nell’interesse dei governati, solo allora non avrà più da temere i latrati di Trasimaco. E la riforma della giustizia si farà.