Le accuse rivolte dagli imputati a Pietro Ichino nell’aula del processo alle nuove Brigate Rosse – a cominciare dalla più antica e sinistra, l’accusa di essere un “venduto” – non hanno ovviamente bisogno di repliche, non foss’altro perché si smentiscono da sole (cosa avrebbe da guadagnarci un uomo che per le sue idee vive da oltre dieci anni sotto scorta, quando potrebbe condurre una vita ben più tranquilla e confortevole, se soltanto accettasse il ricatto dei terroristi?). Quelle accuse meritano però attenzione, perché segnalano un problema reale e troppo spesso sottovalutato. Non è questo, infatti, il gesto di un isolato gruppo di disperati, se non già pentito almeno ragionevolmente sfiduciato sulle proprie folli prospettive, perché sradicato dal paese e messo in condizione di non nuocere. E’ invece un segnale a chi sta fuori, che mostra pertanto una duplice convinzione: la convinzione che effettivamente, fuori, ci sia qualcuno pronto a raccoglierlo, ma anche il rifiuto di qualsiasi passo indietro da parte degli stessi imputati, incuranti di aggravare così enormemente la loro posizione.
Confondere un simile delirio con la politica significherebbe rendere il miglior servizio al terrorismo, e il peggiore alla politica. La crisi economica, la rottura della Cgil sulla riforma dei contratti, le tensioni con i partiti della sinistra radicale sulla legge elettorale per le europee, ognuno di questi argomenti, che appartengono alla naturale dialettica politica, va tenuto rigorosamente separato dal tema della lotta al terrorismo, che resta innanzi tutto un fenomeno criminale. A tutte le forze politiche e sindacali, ma anche alla stampa, è richiesto pertanto il massimo senso di responsabilità: governo, maggioranza e Confindustria devono evitare ogni sia pur lontano sospetto di strumentalizzazione; opposizione e sindacato dare prova di altrettanta prudenza, sorvegliando le parole, e non solo quelle.
Il dibattito pubblico su tutte le questioni all’ordine del giorno, così come la discussione sulle idee e le proposte del senatore del Partito democratico Pietro Ichino, non può cedere al ricatto degli assassini, né a quello di un interessato allarmismo. Ma è pur vero che il perdurare di questa malattia, che sul corpo della società italiana mostra una resistenza ormai quasi quarantennale, sconosciuta a qualsiasi altro paese occidentale, interroga la coscienza pubblica e innanzi tutto la sinistra. Interroga però anche tanta parte di un mondo dell’informazione e della cultura che delle origini di quella cupa stagione ha dato finora una versione di comodo, edulcorata e distorta, in un miscuglio di rimozione e falsificazione del passato. E il risultato è che siamo ancora qui.