Intervistato dal Corriere, Camillo Ruini ha affermato che quel che sarebbe accaduto a Eluana, con l’interruzione dell’alimentazione e dell’idratazione, va descritto, se si vogliono “chiamare le cose col loro nome”, in questi termini: “Farla morire di fame e di sete”. Ora Eluana è morta. Il cardinale Barragan chiede perdono al Signore per coloro che l’hanno uccisa. Il presidente dei senatori del Pdl, Maurizio Gasparri, dice che pesano le firme non messe sotto il decreto legge del governo. Maurizio Sacconi chiede di proseguire nella discussione sul cosiddetto testamento biologico. Fioccano le dichiarazioni: è il caso di provare a tessere il filo di un ragionamento, che non debba nulla all’emozione del momento e aiuti, se possibile, a fare una legge migliore di quella che il parlamento sembra accingersi a votare. Nec ridere nec lugere.
Cominciamo allora col dire che non c‘è pretesa al mondo più impegnativa di questa: chiamare le cose col loro nome. Siccome il cardinale Ruini ha trovato il nome per la cosa, gli si deve chiedere: cosa sono la fame e la sete, che ha creduto di nominare così a proposito nel caso di Eluana Englaro? L’opinione pubblica discute di questioni che appaiono (e in verità anche sono) molto più grandi di quella che è impegnata dalle parole di Ruini, ma non è cosa del tutto secondaria neppure questa, come mi propongo di dimostrare.
E dunque: cosa sono la fame e la sete? Il primo aiuto viene dal vocabolario, che parla (per la fame: mi limito a questa) di una sensazione che sorge a causa della necessità di sostanze nutritive da parte dell’organismo. Dovendo indicare dei sinonimi, il vocabolario snocciola: appetito, appetenza, languore. Ma uno che voglia chiamare le cose col loro nome dovrebbe diffidare dei sinonimi, che paiono inutilmente complicare quel paradiso del linguaggio in cui per ogni cosa c‘è uno e un solo nome, e ogni equivoco è così bandito. Dunque, lasciamo perdere l’infida guida dei sinonimi, e fidiamoci invece di una guida ben più sicura, la scienza. La quale è giunta a localizzare i centri cerebrali che presiedono alla sensazione di fame. Si trovano nel sistema nervoso centrale, a livello ipotalamico. Sono due: il centro della fame e il centro della sazietà (ci vuole anche quello, perché si prova anche la sensazione di sazietà). La scienza ha fatto grandi passi avanti nel cercare di indicare quali afferenze, cioè quali segnali influenzino la complessa interazione fra i due centri ipotalamici e facciano dire al cervello: “Ho fame”.
Queste importantissime ricerche finiscono però col gettare confusione, invece di rettificare l’uso dei nomi, se fanno “dire” al cervello che ha fame. Nessuno ha mai visto infatti un cervello dire qualcosa, meno che mai che ha fame, o che ha fame l’organismo che ha quel cervello. Se chiamiamo le cose col loro nome, non possiamo perciò non continuare a spiegare il fenomeno in termini di livelli di glicemia, neuropeptidi, dilatazione o contrazione delle pareti dello stomaco, e così via. Se chiamiamo le cose col loro nome, e ci affidiamo alla scienza, la fame scompare alla vista. In nessun punto del cervello si prova la fame. Scompare alla vista la sensazione di fame, ma meglio si dovrebbe dire l’aver fame, che si esaurisce tanto poco in una puntuale e privata sensazione di fame da manifestarsi in comportamenti diversi, la cui discriminazione avviene non a livello neurologico, ma a livello linguistico, grazie al vocabolario dal quale eravamo partiti, e che saggiamente ci aveva, allo scopo, provveduto di sinonimi: forse siamo stati troppo frettolosi nell’accantonarlo.
Il progetto di rettifica dei nomi si scontra dunque fatalmente col problema che fame è il nome di un comportamento attribuibile non a un cervello o a un centro ipotalamico, ma a un organismo vivente, nel modo che è proprio di quel vivente (animale se animale, umano se umano).
Ora torniamo a Camillo Ruini, e chiediamoci se, nel chiamare le cose col loro nome, abbia pensato che la fame, che sarà avvenuta al corpo di Eluana (non mi riesce di dire che Eluana avrà provato), sia stata tale anche “in assenza di una mente che riceve e proietta informazioni”, in assenza di “segni anche minimi di percezione cosciente o di motilità volontaria”, in assenza di “attività psichica”, per riprendere i termini con cui viene descritta dalla Corte la condizione di Eluana.
Poiché Ruini ha detto che Eluana sarebbe morta di fame e sete, bisogna concludere però che per Ruini sia proprio così. In tal caso, con improvvida mossa, Camillo Ruini ha semplicemente gettato al vento una lunghissima tradizione non solo teologica, ma anche antropologica e filosofica di cui, in quanto Cardinale di Santa Romana Chiesa, dovrebbe forse sentirsi più vigile custode. Entro quella tradizione, a sentire fame non è il corpo, il cervello, il centro ipotalamico. Entro quella tradizione, la fame non è affatto un evento oggettivo, cui si aggiungano poi la sensazione, la coscienza, il comportamento, il linguaggio. Entro quella tradizione, una simile oggettivazione della fame (e del fenomeno del vivente in generale, e dell’umano in particolare) non può non essere guardata con profondo, filosofico sospetto.
E invece no. La vita dell’uomo viene fatta coincidere con la mera funzione biochimica di un organismo, o di parti di quell’organismo. Dopo di che l’intera discussione viene spostata bruscamente sui valori, sul valore della disponibilità o indisponibilità assoluta di quella vita, sulla cui vitalità e umanità non si sa però più dire nulla. Una catastrofe ontologica, e un disastro culturale, di cui neppure ci si avvede, continuando ciecamente a parlare di valori, senza più guardare i fenomeni. Catastrofe ontologica, disastro culturale e sconfitta civile, perché, così sganciati dal piano della realtà (come dicono i filosofi: dell’essere), i valori non possono che essere punti di vista individuali sul mondo e sulle cose, e di conseguenza nessun valore può essere più alto dell’autonomia individuale. Siccome però la Chiesa non può accettare che i valori siano tali fragilissimi punti di vista, né può mettere in cima ai suoi valori l’autonomia dell’individuo, non le resterà che augurarsi di trovare governi compiacenti che urgentissimamente se ne facciano carico, anche a prezzo di qualche principio laico e liberale. Ecco la sconfitta. Perché capiterà pure, in qualche parte del mondo, che un governo faccia in tempo a imporre quel che non si riesce più in altro modo a fondare, ma non per questo il mondo cambierà direzione, visto che in quella direzione la Chiesa cattolica ha scelto di non aver più una parola da dire.
E se, ora che Eluana è morta e nessuna urgenza incombe sui lavori parlamentari, potessero tutti pensar meglio al significato delle parole, forse si potrebbe provare davvero a scrivere una legge più umana, figlia non della cultura della vita o della cultura della morte, ma, più semplicemente, della cultura.