Sempre più spesso si sente ripetere che la sinistra italiana ha perso la capacità di ricollegare le parole alle cose: dietro la nebbia delle sue altisonanti parole, la sinistra nasconderebbe in realtà l’incapacità di parlare delle cose. In pochi casi questo è vero come nel dibattito sul rinnovamento del Partito democratico, tornato di moda in occasione della composizione delle liste per le elezioni europee, che non ho votato in direzione nazionale. E non perché abbia da obiettare sui capilista o su altre candidature, ma semplicemente perché quelle liste, a mio avviso, sono state costruite secondo una logica sbagliata.
Ci hanno spiegato che non è più il tempo dei grandi partiti organizzati: ci sono i cittadini-elettori, che bastano e avanzano. Poi ci hanno detto che i partiti non hanno più bisogno di una visione della società e di un’idea del mondo: un programma elettorale è più che sufficiente – e per definirlo ci sono sempre i suddetti cittadini-elettori, coadiuvati dagli specialisti del ramo, per quanto di loro competenza: ambiente, riforme istituzionali, leggi elettorali, caccia, pesca e via dicendo (economia no, perché di questa si occupa il mercato). A conclusione del ragionamento, ci hanno spiegato che per interpretare questa politica c’era bisogno di facce nuove, capaci di incarnare la freschezza del progetto, invitando tutti a occuparsi così non del merito dei problemi, ma del metodo delle scelte. Ed ecco, finalmente, il dibattito sul rinnovamento: la gara a chi si dimostri meglio capace d’interpretarlo; gli appelli per estendere le primarie anche agli amministratori di condominio; la retorica sulle competenze, il merito, il profilo e il curriculum dei candidati. Il tutto condito da attenti servizi giornalistici alla spasmodica ricerca dell’Obama italiano.
Per partecipare a questo gioco occorre contestare al Capo – chiunque sia – di non essere abbastanza duro nei confronti dei propri avversari interni, mostrarsi sempre disponibili alla cooptazione e non rompere mai l’assedio del politicamente corretto. Non contano, in questa gara, né il consenso né le idee, tanto meno le posizioni politiche. Anzi, più il rinnovamento è puramente anagrafico e svuotato di qualsiasi senso politico, meglio è. In fondo, questa è una delle leggi non scritte che da quindici anni dominano la Seconda Repubblica. E a questa legge si piega anche il Partito democratico, in ogni passaggio decisivo. Facile capire come una simile deriva non possa stare bene a chi cerca di costruire dentro il Pd un’organizzazione giovanile che si qualifichi non per l’età dei suoi membri, comunque più giovani di tanti rinnovatori di professione, ma perché prova a dire la sua sulla crisi, sulla qualità della democrazia in Italia, sulle condizioni di vita di centinaia di migliaia di ragazzi che misurano quotidianamente la distanza tra le proprie aspirazioni e la realtà delle proprie condizioni di vita.
E così, anziché favorire il crescere di una nuova generazione di militanti e dirigenti, vengono fuori individualità, spesso in conflitto tra loro e comunque incapaci di promuovere il minimo cambio di passo. Capaci di qualche contributo intelligente, ma impossibilitate, nella competizione per gli strapuntini, a trovare il tempo per articolare una riflessione su come diventare maggioranza in Italia, magari anche evitando di dare il proprio assenso a un referendum che rischia di rivelarsi un suicidio, oltre che per il Pd, per quel minimo di bilanciamento dei poteri che è alla base di ogni democrazia.
Non ci vorrebbe molto, per cambiare passo. Basterebbe un partito. E cioè un’organizzazione collettiva che non concede sconti e non fa regali a nessuno, ma che seleziona, anche con durezza. E che pertanto non ha alcun bisogno di tirare fuori ogni volta il coniglio dal cilindro, sempre giovane, fresco e con la faccia pulita, e sempre funzionale agli equilibri di sempre.
Ai dirigenti del Pd non chiediamo dunque dichiarazioni, gesti o proclami simbolici. Dateci – diamoci tutti insieme – semplicemente un partito. Il dibattito sul rinnovamento ve lo restituiamo volentieri.