A quanto pare, le celebrazioni per il centocinquantesimo anniversario dell’unità d’Italia sono cominciate. Senza un grammo di retorica, senza neanche un briciolo di declamatoria eloquenza. Tanto che si sarebbe potuta tenere più bassa persino la cifra, e fare come se l’unità avesse solo cent’anni, o anche meno: per non esagerare con l’enfasi. Centocinquant’anni, infatti, sono tanti: qualcuno potrebbe inorgoglirsi sul serio. Se gli anni fossero invece solo trenta o quaranta, le celebrazioni potrebbero più comodamente tenersi in tono minore.
Oppure è il contrario? Nei primi decenni tutti sono ancora infervorati dall’impresa patriottica: ne conservano vivo il ricordo e magari è ancora viva qualche vecchia gloria che l’unità l’ha fatta davvero. Nel cinquantesimo, per dirne una, bello o brutto che sia fu inaugurato addirittura il Vittoriano. Dopo 150 anni, invece, il Risorgimento è finito da gran tempo, la parola stessa suona gonfia e ampollosa (chi mai la usa, nel linguaggio quotidiano?) e a ricordar le epiche gesta sembra siano rimaste solo le strade e le piazze intitolate a Mazzini e Garibaldi, a Cavour e Vittorio Emanuele II, ma anche la toponomastica prima o poi farà il suo tempo.
Risorgimento inattuale, dunque? Friedrich Nietzsche, che di considerazioni inattuali ne ha scritte, distingueva tre modi diversi di fare storia: la storia monumentale, la storia antiquaria e la storia critica, distinte a seconda dell’atteggiamento tenuto nei confronti del passato. Il criterio di giudizio era comunque l’utilità della storia per la vita: la vita presente, ben s’intende, perché è per essa, per orientarsi e orientare il presente, che si fa storia. Non aveva però pensato, il terribile filosofo, di considerare un’altra modalità di fare storia, in uso qui da noi: quella sbadata, sciatta e svogliata, come di chi inciampa in un certo evento e, ritrovandoselo tra i piedi, non può non rievocarlo; ma senza badarci più di tanto passa subito oltre.
Ora, nel dibattito pubblico sembra proprio che questa sia l’intenzione dei più (della Lega di sicuro), al punto che il Presidente Napolitano, di fronte a certe uscite neanche troppo estemporanee, si è visto costretto a spiegare, fuori da ogni retorica, che celebrare e rievocare, studiare e commemorare non sono attività inutili, non sono tempo perso. Chi lo pensasse, peraltro, dovrebbe pure aggiungere che il mestiere stesso del Presidente è una gran perdita di tempo, visto che consiste anzitutto nel rappresentare l’unità nazionale.
Ma immaginare che invece la retorica ci vuole eccome, che è quello che vorremmo sommessamente suggerire, non significa rendere obbligatorie fastose rievocazioni in costume, o costruire un altare della patria più grande e più grosso di pria. Nessuno deve essere costretto a parlare un vetusto italiano ottocentesco, né in seduta parlamentare diverranno obbligatori le basette o i favoriti. Come però si può pensare di festeggiare senza retorica? Come si può credere che viva un amor di patria senza un pizzico di retorica dell’amor di patria?
Ma la retorica è inutile, si dice, e a volte persino dannosa. Ora, a parte il fatto che c‘è retorica e retorica, proprio come ci sono buoni e cattivi discorsi, vi sono almeno due argomenti che gli spregiatori della retorica dovrebbero prendere in considerazione.
Il primo: parte cospicua della retorica è costituita dalla inventio, che non vuol dire inventare ma trovare i loci, cioè i luoghi del discorso ai quali l’oratore può attingere facilmente perché costituiscono un patrimonio comune e condiviso. Luoghi comuni, appunto. Orbene, si può immaginare un paese che non abbia di questi luoghi ideali condivisi, ai quali attingere, e grazie ai quali costruire il racconto pubblico della propria storia? Oppure si pensa davvero che questi luoghi non debba più fornirli la storia, ma solo il calcio o la tv?
Il secondo: a volte anche il parlar vuoto serve. Assolve una funzione che non è meramente informativa, ma che non per questo non è importante. A volte, tanto nella vita individuale quanto nella vita collettiva. Nella vita individuale: basti pensare alle volte in cui si dice a se stessi quel che si sta facendo, incoraggiandosi da soli, ad esempio, o da soli mettendosi in guardia. Ebbene, perché diavolo ci si intrattiene a parlar con se stessi? Di cosa dobbiamo informarci, in casi del genere? Di nulla, evidentemente, che non si sappia già. Se dunque parliamo a noi stessi, non è perché abbiamo bisogno di informarci di alcunché, ma per rappresentarci a noi stessi come attori della nostra vita. Per riappropriarci del nostro stesso ruolo, per tirarci fuori da una situazione di crisi e convincerci che, dopo tutto, ci siamo ancora. Questa “retorica”, questo parlar vuoto che non aggiunge alcuna informazione a quel che già sappiamo, equivale però a un sonoro “eccoci!”, con cui torniamo a farci avanti, dimostriamo a noi stessi di esserci, scrollandoci di dosso dubbi e incertezze. Di nulla di meno ha bisogno l’Italia oggi: quel che vale nelle biografie dei singoli individui vale anche per quelle dei popoli, e una comunità che abbia imbarazzo a far sentire la propria voce non a cospetto degli altri, ma dinanzi a se stessa, dimostra che almeno su questo Nietzsche aveva ragione: la vergogna precede e non segue la colpa.