Ecco come la racconta Platone: la vita associata nasce per le varie necessità degli uomini. I primi e più fondamentali bisogni sono cibo, casa, vestiti: cose così. E la divisione del lavoro è il modo migliore per farvi fronte, dal momento che nessun uomo è autosufficiente. Con la divisione del lavoro sorge anche il commercio, insieme alle altre attività necessarie allo scambio dei prodotti. Fin qui Platone non vede sorgere alcun problema. Tutti vanno d’amore e d’accordo. I problemi cominciano per lui quando gli uomini, invece di starsene contenti nei limiti di questa frugale economia del bisogno, si mettono in cerca del superfluo; quando non basta più loro il cibo, perché vogliono il condimento; quando non si soddisfano più dei vestiti, perché vogliono profumi e cosmetici. La città, allora, si gonfia: la «pleonexia», la smodatezza, il volere avere di più, è l’infiammazione che ne ammala tutto il corpo: politici (e, nella città ideale, filosofi) saranno chiamati a governarla, per riportare giustizia, cioè misura e proporzione tra le parti.
Che questo mito dell’origine faccia le cose troppo facili è chiaro allo stesso Platone: la piccola città delle origini non è infatti presentata solo come una città sana, equilibrata e frugale, ma anche come la città dei porci, in cui mancano lussi e raffinatezze, ma anche ogni condimento propriamente umano. Quel che è «di più», in effetti, non è solo superfluo, è anche necessario perché l’uomo sia uomo e conduca un’esistenza più che animale. Il mito platonico nasconde allora un piccolo imbroglio (o perlomeno una difficile aporia): l’uomo non lavora affatto per soddisfare soltanto i suoi bisogni primari, altrimenti non sarebbe uomo. Ma questo significa anche che già nel lavoro l’uomo produce quel «di più» che lo spinge oltre il cerchio di una natura puramente animale.
Non occorre riassumere i successivi duemilacinquecento anni di storia della filosofia: è stato detto che la filosofia non è che una serie di note a piè del testo platonico, e tanto, dunque, può bastare al Pd per mettere al centro della politica, cioè di quella sfera dell’attività umana che si occupa del modo in cui si organizza una città propriamente umana, il lavoro.
Poi non guasta neppure il fatto che, nelle alte sfere della cultura, si ha oggi qualche pudore in più a parlare di «fine del lavoro», se non altro perché si è visto che quando il lavoro finisce non si sta affatto meglio di quando il lavoro invece c‘è, e se anche non è più il lavoro a orientare la totalità dell’esistenza umana e a conferirgli senso, come un tempo si credeva, di sicuro l’assenza di lavoro la orienta eccome, e in una maniera che non è il caso di augurare a nessuno.
Il Pd se ne è accorto, a quanto pare, e questa settimana intende darci dentro. Cominciando coi Giovani democratici, che si confronteranno sui temi del lavoro martedì prossimo, in un incontro su “Lo statuto dei lavoratori tra passato e presente” alla presenza di Pier Luigi Bersani, per seguitare poi con l’Assemblea Nazionale che si terrà il 21 maggio, e in cui bisognerà che il segretario continui a insistere, soprattutto in tempi di crisi, sulla centralità del lavoro nella proposta politica del partito. In Parlamento, d’altronde, c‘è del materiale: le proposte per una nuova politica del lavoro non mancano (Ichino, Nerozzi, Fassina) e persino noialtri filosofi ci siamo convinti che vale nuovamente la pena di occuparsene, e alla Fondazione Italianieuropei abbiamo deciso di dedicare al tema “Il lavoro fra mercato e democrazia” la tradizionale scuola estiva.
Bersani ha dichiarato qualche giorno fa che il diritto del lavoro non è solo una questione di civiltà, ma anche una ricetta economica: forse i filosofi dovrebbero occuparsi soprattutto della prima, che rientra meglio nelle loro corde, e soffermarsi in particolare sul nesso fra lavoro, cittadinanza e inclusione sociale. Non ci vuole peraltro molta riflessione per comprendere che fra cittadinanza e diritti sociali vi deve essere qualche rapporto, che senza il lavoro è difficile per chiunque sentirsi cittadino, e che d’altra parte lavorare senza godere di diritti di cittadinanza altera non poco il gioco della democrazia, che rischia di avere di fatto una base angustamente censitaria. Ma se il racconto della «Repubblica» platonica contiene davvero il piccolo imbroglio che abbiamo denunciato, allora si deve pensare che fra questioni di civiltà e ricette economiche non c’è affatto una netta distinzione: la civiltà è insieme un bene e un prodotto dell’economia – non si è mai visto uno Stato civile e cortese in condizione di grave indigenza – e l’economia è una faccenda civile, cioè politica e pubblica, in cui ne va sempre «di più» di quanto non credano i suoi operatori.
E, a ben vedere, proprio la capacità di mostrare sempre quel che c’è «di più» nella sfera dell’economia, grazie anzitutto al lavoro, costituisce la scommessa costitutiva di ogni politica democratica che intenda ancora battersi per una società più giusta.