Sebbene le previsioni stilate da osservatori pubblici e privati continuino a indicare permanenti difficoltà delle economie europee sul sentiero dell’uscita dalla crisi, soprattutto per quanto riguarda il basso tasso di occupazione e la crescente disoccupazione giovanile, la quasi totalità dei governi europei sembra essere già passata alla fase successiva. Il settore pubblico – che di questa crisi è stato quasi ovunque vittima sacrificale, dovendosi accollare le enormi perdite dirette e indirette del settore privato bancario e assicurativo – nel volgere di poche settimane è stato messo sul banco degli imputati, soppiantando tutte le discussioni sulla regolamentazione della finanza e dei mercati finanziari che invece avevano caratterizzato il dibattito nella fase iniziale della crisi. Mentre a livello comunitario viene messa in cantiere una revisione in senso restrittivo del Patto di Stabilità, con l’ambizioso obiettivo di portarla a casa già alla fine di quest’anno, i singoli governi nazionali stanno implementando un po’ ovunque dolorose manovre di rientro per contenere i giganteschi debiti pubblici emersi negli ultimi mesi. Dopo Grecia e Spagna, anche l’Italia discute proprio in questi giorni di una manovra finanziaria che, se nelle intenzioni iniziali del ministro Tremonti doveva riguardare solo falsi invalidi ed evasori fiscali, sembra ora puntare dritto sulla vittima di sempre, ovvero il mondo del lavoro. Sebbene pubblicamente questi sforzi vengano presentati come necessari per evitare all’Italia un destino simile a quello della Grecia o dell’Argentina, molti commentatori non nascondono la soddisfazione per il presentarsi di un’occasione storica che permetterà di legare definitivamente le mani a una classe politica ritenuta strutturalmente incapace di prendere delle decisioni appropriate per la modernizzazione del paese. Una pratica non nuova nel nostro paese, che già all’inizio degli anni Novanta – grazie all’esistenza di un vincolo esterno rappresentato dai trattati europei e dalla difficile situazione dei conti pubblici – aveva permesso di somministrare agli italiani delle politiche economiche che altrimenti non sarebbe stato possibile attuare.
A ben guardare questa impostazione ricorda ricorda molto da vicino gli scritti del noto economista tedesco Albert Hirschmann raccolti nel famoso libro “Come far passare le riforme”. Parlando delle esperienze politiche dell’America Latina, Hirschmann osservava che quando la via maestra del modello democratico è molto dissestata oppure si presenta ostruita, le cosiddette “riforme di contrabbando” – o reform mongering – finiscono per essere una via indiretta assai praticata. Una analisi che è possibile applicare anche alla estrema debolezza politica di questo bipolarismo muscolare e che se da un lato può certamente indurre a guardare con molta indulgenza a queste astuzie partorite dall’intelligenza dell’uomo, dall’altro solleva l’interrogativo su quanto un sistema democratico possa sopportarle.
Nessuno può mettere in dubbio che l’operare dei cosiddetti governi tecnici di inizio anni Novanta abbia consentito al paese di evitare il default economico e conseguentemente una irreversibile crisi sociale, agendo con successo sui mali endemici dell’economia italiana, conti pubblici e l’inflazione in testa. Ma non bisogna dimenticare che le cure da cavallo somministrate agli italiani non sono state né indolori né equamente ripartite tra i cittadini. Accanto agli indiscutibili benefici del reform-mongering all’italiana, bisognerebbe forse ricordare la massiccia redistribuzione della ricchezza e dei redditi – per non parlare della ridefinizione degli assetti di potere indotti dalle privatizzazioni – che proprio in quegli anni si è venuta a generare sotto lo sguardo impotente della politica, messa in ginocchio dalle inchieste giudiziarie. Una situazione che fu solo parzialmente arginata con l’aggancio della moneta unica, ma che – una volta raggiunto l’obiettivo – finì per esplodere nella drammatica crisi sociale e di consenso che viviamo in questi ultimi anni.
Tentare di affrontare questa nuova situazione con le astuzie del passato non sembra quindi un’opzione lungimirante. Da un lato va contrastata l’idea, purtroppo ancora largamente diffusa, che le riforme possano essere introdotte sotto pressione esterna e in maniera perfettamente tranquilla, neutrale e ordinata, come il risultato delle raccomandazioni di qualche esperto. Dall’altro bisognerebbe invece prendere atto che realizzare le riforme economiche e sociali è un lavoro estremamente difficile, occasionalmente violento e generalmente pericoloso, e che chiunque avesse intenzione di avventurarsi in una impresa di questo tipo avrebbe bisogno di stringere alleanze di ogni specie, alcune delle quali includeranno verosimilmente partner molto singolari. Solo così la politica potrà recupare per sé un ruolo attivo nel cuore del paese, evitando contemporaneamente che l’Europa, soffocata nel ruolo di alibi di ogni riforma, diventi la prima vittima della propria incapacità di offrire al paese un percorso autonomo di modernizzazione.