Veltroni e il complesso di Robertino

Se c’è una cosa che bisogna usare con precauzione, è il principio di precauzione. L’uso incontrollato produce infatti seri danni collaterali. È così nella vita privata ed è così nella vita pubblica. Per la prima, chiunque abbia ad esempio una moglie troppo premurosa, maledettamente ansiosa, sa di cosa parlo. Tuo figlio vuol tornare da solo a casa, all’uscita da scuola? Basta che nella mente del coniuge si affacci la mera possibilità che lungo il percorso si appostino ladri, assassini e in generale brutte compagnie, per escludere che gli si possa dare il permesso. Naturalmente tutto ciò è molto improbabile, ma cosa vuoi che sia una probabilità più o meno grande a fronte di così gravi pericoli? Ci vuole accortezza. La prudenza non è mai troppa. E anche se da scuola a casa sono poche decine di metri, per il principio di precauzione è meglio accompagnare il figliolo tenendolo stretto per mano. Pazienza se tra i danni collaterali di un simile eccesso di precauzione c’è, purtroppo, l’insuperabile stato di minorità cui il pargolo sarà condannato, condizione nota anche come “stato di Robertino”, dal nome del personaggio che nel film di Massimo Troisi, Ricomincio da tre, è rinchiuso da una mamma assai previdente in una specie di casa museo.
Anche nella vita pubblica, a volte, l’eccesso di precauzione si manifesta con i medesimi effetti paralizzanti sulla maturità politica del paese. Prendiamo per esempio l’intervista di Walter Veltroni a Repubblica. L’ex segretario del Pd commenta le parole del procuratore nazionale antimafia, Piero Grasso, il quale aveva sostenuto che gli attentati del ’93 avevano una duplice finalità: “Orientare la situazione in atto in Sicilia verso una prospettiva indipendentista […] e organizzare azioni criminose eclatanti che, sconvolgendo, avrebbero dato la possibilità ad un’entità esterna di proporsi come soluzione per poter riprendere in pugno l’intera situazione economica, politica, sociale, che veniva dalle macerie di Tangentopoli”. Queste parole configurano da sé sole uno scenario assai inquietante. Ma a Veltroni non bastano. Veltroni, che storico non è, vuole tuttavia mettere le cose in una “prospettiva storica” e allora rincara la dose, accumulando un bel po’ di altri fatti e circostanze: nella sua intervista ricompaiono Piazza Fontana e il rapimento Moro, e poi “l’estremismo di destra e le Br, i servizi segreti e la P2 e la banda della Magliana e forse anche pezzi di terrorismo di sinistra”. Dopodiché Veltroni pone la terribile domanda: è una e la stessa l’entità esterna che ha voluto le stragi di mafia del ’92-‘93 e che sta dietro a tutta questa roba? Ora, uno vorrebbe rispondere che forse no, non è la stessa, che basta e avanza l’ipotesi di Grasso per mandare in bestia Cicchitto e Bondi e immaginare un paese perennemente imbrigliato da trame oscure, ma la consecuzione nel ragionamento di Veltroni è implacabile. Seguitela: “Se non è così, non si capisce quale potere abbia potuto mettere insieme in tutte queste storie di sangue cose in apparenza tanto distanti”. In realtà, la logica vorrebbe che se non è così, se uno pensa che non c‘è la stessa “entità” dietro tutti questi fatti, allora è plausibile, si direbbe tautologico, concludere che non c‘è un’unica centrale di potere che ha messo tutto insieme. E invece, con sprezzo della contraddizione che non lo consentirebbe, Veltroni conclude che se non è così, allora non si capisce come non possa esser così.
Ma non è questo che nell’intervista di Veltroni impressiona di più. Dopo tutto, un po’ di precipitazione logica in condizioni di allarme democratico è comprensibile. Quello che invece colpisce è, tutto al contrario, lo stallo che l’ex segretario si augura per il paese, il “fermiamoci tutti” che propone come rigorosa applicazione del principio della precauzione democratica. Mentre infatti tutto il Pd, da Bersani in giù, rimprovera giustamente al governo di avere sottovalutato la crisi, di non avere fatto nulla, di non avere preso per tempo i necessari provvedimenti, di avere sopito, smorzato, attutito – mentre insomma l’opposizione accusa il governo di non essersi mosso fino ad ora, Veltroni cosa fa? Forse perché pensa, come la mamma di Robertino, che la fretta è figlia del demonio, Veltroni suggerisce di “mettere per un momento da una parte tutto il resto, la manovra finanziaria e la crisi, Berlusconi e Fini e le questioni interne ai partiti”. In breve, il candidato del 2008 al governo del paese propone che l’Italia lasci perdere tutto quello che preoccupa gli altri paesi europei, per mettersi a discutere di Licio Gelli e suoi derivati. È il principio di precauzione, bellezza: in una delle sue più soffocanti applicazioni. Basta infatti formulare l’ipotesi dell’entità esterna, ricondurre ad essa tutti i misteri irrisolti d’Italia – perché, s‘è visto, o c‘è un’unica entità o non si capisce come possa non esserci un’unica entità – per paventare un rischio per la democrazia tale che al confronto il rimanente son bazzecole.
Intendiamoci: non è che io sia in grado di valutare la concretezza del disegno eversivo evocato da Grasso, ampliato da Veltroni a generale affresco della diabolica storia del paese degli ultimi quarant’anni. Suppongo però che neanche Veltroni lo sia. Però a lui basta la domanda, anzi la sfilza di domande che snocciola una dopo l’altra per bloccare precauzionalmente il paese in una surreale surplace, in cui scompaiono la crisi e il blocco dei contratti, i tagli alle regioni e i condoni mascherati, per chiedersi, fondata o no che sia l’ipotesi, se non siamo tutti eterodiretti da una misteriosa entità. Ora, non so a voi, ma a me di trattare l’Italia come la mamma tratta Robertino, francamente, non va.