Meglio dirlo subito: il presepe di Pomigliano non ci piace. Lo spirito prematuramente natalizio con cui l’accordo separato è stato annunciato sulla stampa, con Sergio Marchionne nei panni del Salvatore, il ministro Maurizio Sacconi nelle vesti del bue ed Enrico Letta in quelle dell’asinello, non solo non ci convince, ma ci fa venire in mente, per citare il grande Altan, idee che non condividiamo. Come, per dire la più moderata, l’idea di schierarci con quella Fiom che abbiamo sempre considerato l’esempio più preoccupante di un estremismo sindacale e di una torsione politica del ruolo della Cgil a dir poco irresponsabili, incondivisibili e dannosi, per il sindacato e per la sinistra, ma soprattutto per i lavoratori. Ancor meno, però, possiamo condividere l’intervista di Enrico Letta, vicesegretario del Partito democratico, pubblicata martedì sul Corriere della sera. “Io sono sempre molto rispettoso dell’autonomia del sindacato – ha detto Letta – penso però che la Fiom si assume una grave responsabilità. Se questo accordo saltasse sarebbe una pessima notizia per l’Italia, per il Sud perché Pomigliano in Campania non è sostituibile e 5 mila lavoratori non sono sostituibili”. Nient’altro. Non una parola sui contenuti dell’accordo proposto, il metodo adottato dall’azienda, la posizione del governo o della Confindustria (tralasciamo per carità di patria il resto dell’intervista, in cui si esorta il governo a trovare le risorse necessarie per la finanziaria privatizzando quel poco che resta della nostra industria).
La posizione espressa da Letta è quella della Fiat, del Corriere della sera, della Stampa, del Sole 24 Ore, di Repubblica. Secondo questa ricostruzione, la Fiat vuole semplicemente salvare lo stabilimento, con i relativi posti di lavoro. Qualsiasi manifestazione di dissenso, pertanto, non merita nemmeno di essere presa in considerazione: contestare l’accordo significa semplicemente che non si vuole salvare Pomigliano. Tipico esempio di accordo scorsoio: più ti agiti, più ti si stringe alla gola. Ragion per cui, giunti a questo punto, c‘è poco da fare: c‘è da augurarsi che al referendum tra i lavoratori vincano i sì e che l’accordo si chiuda. Ma con questo genere di accordi c‘è comunque poco da rallegrarsi. A star buoni e a non agitarsi troppo, infatti, c‘è anche il rischio che a stringere il nodo siano comunque altre mani, come quelle di chi già comincia a parlare di accordo modello, esempio da seguire, unica strada per il futuro. Prima di finirci impiccati, sarà bene pertanto fermarsi un momento a riflettere.
Ospite della trasmissione di Lucia Annunziata, il ministro Sacconi ha potuto citare l’editoriale di Eugenio Scalfari. “Se la Fiat – ha scritto il fondatore di Repubblica – trasferisce la produzione di uno dei suo modelli da una fabbrica dove i salari e le condizioni del lavoro sono più favorevoli al capitale investito ad una fabbrica dove sono invece più sfavorevoli, il trasferimento potrà farsi soltanto se le condizioni tenderanno a livellarsi, oppure non si farà… non si tratta di ricatto ma di dati di fatto e con i dati di fatto è inutile polemizzare”. Eccoli qua, quelli che ogni giorno danno lezioni al Partito democratico su cosa dovrebbero fare la sinistra e l’opposizione.
Tralasciamo, per non annoiare il lettore, l’ampio ventaglio di citazioni consimili che potremmo trarre dallo stesso articolo, dal Sole 24 Ore o dal Corriere della sera. Preferiamo citare invece le parole di Fausto Raciti e Michele Grimaldi, rispettivamente segretario nazionale e segretario regionale campano dei Giovani democratici: “Accettare fosse anche una sola volta, ed una sola volta spesso in questi casi diventa sempre, che laddove le condizioni di bisogno siano maggiori, minori possano e debbano essere le tutele, i diritti, forse anche i salari, è la risposta che questo paese intende dare alla crisi? Dare il là ad un sistema fatto di deroghe, ‘casi eccezionali’ e ricatti, che diverrà presto modello per tante altre imprese, e abolire di fatto l’idea del contratto unico nazionale come forma di tutela e di equità (anche territoriale), è una strada percorribile?”.
Va anche detto che mercoledì, e cioè il giorno dopo la sconcertante intervista del suo vicesegretario, Pier Luigi Bersani è intervenuto sull’Unità con parole assai misurate. “Non credo che nessuno, nemmeno la Fiat o Sacconi, possa pensare che un diritto costituzionale sia aggirabile da un accordo. Non abbocchiamo all’amo di chi ce la racconta così”, dice il segretario del Pd, riferendosi alla limitazione del diritto di sciopero prevista dall’accordo. “Sacconi dice che vede un grande orizzonte fatto di deroghe ad ogni livello. Se lo sogna. La Costituzione non è derogabile. È una partita delicatissima. Mi rifiuto di pensare che giunti a questo punto non si possa arrivare ad un accordo”.
E’ evidente, giunti a questo punto, che nessuno può augurarsi a cuor leggero che l’accordo salti, con il rischio che la Fiat chiuda lo stabilimento, mandando a casa cinquemila lavoratori. Ma sarà almeno consentito, dinanzi al coro assordante che si leva in questi giorni, dire che “questo punto” non ci piace. E sarà consentito anche osservare, visto quello che è in gioco, che delle due l’una: o il Partito democratico riparte da qui, e si decide una buona volta a lasciare a casa tanti maestri del pensiero politico e costituzionale troppo impegnati a delocalizzare la propria indignazione secondo l’andamento del mercato, o non serve a niente.