Di tutti i fenomeni di devozione popolare che hanno spesso attirato sul nostro paese l’attenzione di registi, scrittori e antropologi di ogni parte del mondo, pochissimi possono competere, per diffusione e per intensità del sentimento, con il culto che circonda il capo dei nostri servizi segreti, Gianni De Gennaro. Da anni, ormai, un pellegrinaggio instancabile di politici, opinionisti e cronisti giudiziari si ripete ciclicamente dopo ogni accusa, ogni sospetto, ogni insinuazione che arrivi anche solo a scalfirne l’immagine, fino ai casi di vera e propria estasi mistica seguiti alla sua recente condanna per istigazione alla falsa testimonianza nel processo d’appello sull’irruzione alla scuola Diaz, durante i drammatici giorni del G8 di Genova, quando De Gennaro era capo della polizia.
Non è il caso di ricordare qui la barbarie, la sospensione dello stato di diritto e delle più elementari garanzie democratiche, la violenza ingiustificata di quelle giornate, che è stata già ampiamente documentata. Troppe volte i dettagli più odiosi di una vicenda giudiziaria sono stati usati sulla stampa per “mostrificare” gli accusati, con una distorsione logica che rende vano ogni tentativo di difesa. Tanto più che da quelle stesse accuse, e non è dettaglio da poco, De Gennaro è stato assolto in primo grado (e proprio questo corto circuito dimostra come, tra tante pessime riforme annunciate dal governo in materia di giustizia, quella secondo cui un cittadino che sia stato assolto una volta dovrebbe essere lasciato in pace, obiettivamente, era e resta sacrosanta).
Per quanto riguarda però il rischio della “mostrificazione”, almeno in questo caso, si può stare più che tranquilli. Non solo, infatti, sui grandi quotidiani non si sono lette in questi giorni altro che interminabili apologie della vita e dell’opera di De Gennaro. Ma persino da parte della politica, e della stessa opposizione, il coro in sua difesa è stato pressoché unanime, con l’unica eccezione della sinistra radicale (che di quelle giornate di Genova, com’è comprensibile, deve aver conservato un ricordo piuttosto vivido). Basta citare per tutti Antonio Di Pietro, per restare in tema di crisi mistiche, con il suo secco: “Sono garantista”.
Sta di fatto che le dimissioni presentate da De Gennaro all’indomani della sentenza sono state immediatamente respinte dal governo, mentre dallo stesso Partito democratico non si levavano che dichiarazioni di solidarietà, fiducia ed elogio al capo dei nostri servizi, con l’unica, comprensibilmente timida eccezione di Andrea Orlando e Matteo Orfini, che hanno invitato il loro partito a mantenere almeno un minimo di prudenza.
Sta di fatto che all’ex ministro dello Sviluppo economico Claudio Scajola, per la nota vicenda dell’appartamento pagato da altri “a sua insaputa”, sono state chieste immediatamente le dimissioni, ottenute nel giro di pochi giorni, sebbene non avesse ricevuto nemmeno un avviso di garanzia. Ma per il capo dei servizi segreti, condannato in secondo grado per una vicenda forse anche un pochino più grave di quella dell’appartamento di Scajola, non paiono sussistere analoghe ragioni di opportunità. Non secondo il governo, e la cosa certamente non stupisce. Ma nemmeno per l’opposizione. E forse, a pensarci bene, non stupisce neppure questo.