Come fare a pezzi l’Eni (e l’Italia)

Puntuale come la tradizionale ondata d’aria calda di luglio si è riaperto da qualche giorno il dibattito sullo smembramento dell’ultimo gioiello industriale sopravvissuto in Italia, cioè l’Eni. A dare il via alle danze è stato Alessandro Ortis, presidente in scandenza dell’Authority sull’energia, il quale ha approfittato dell’ultima relazione annuale del suo lungo mandato per tornare a ribadire una posizione già espressa ripetutamente in passato: separare cioè la proprietà dell’Eni dalle grandi reti di trasporto del metano – controllate da Snam Rete Gas – per andare verso un modello di reti cosiddette “neutrali” come quello già adottato nel campo dell’elettricità con la costituzione di Terna. Secondo Ortis lo smembramento di Eni favorirebbe la concorrenza, provocherebbe una diminuzione delle tariffe per i consumatori e apporterebbe benefici anche alla stessa Snam che potrebbe così proiettarsi oltre i confini nazionali, favorendo indirizzi simili anche da parte delle compagnie energetiche di altri paesi europei. Argomentazioni analoghe sono state utilizzate anche dalla Knight Vinke, società finanziaria americana, che dopo aver visto fallire il proprio piano di smembramento proposto l’anno scorso, è tornata alla carica dalle pagine del Financial Times proprio pochi giorni dopo la relazione di Ortis.
Nonostante la noiosa ripetitività con cui il tema fa capolino nei dibattiti, due sono le novità rispetto al passato. Da un lato Ortis, privo ormai della sponda fornita dalle pressioni della Commissione europea (cessate con l’accordo del giugno 2008 che permette a Eni di non cedere Snam), ha cercato di addolcire la pillola suggerendo la cessione del controllo della rete del gas alla Cassa depositi e prestiti. Una proposta che ha lasciato di stucco molti commentatori: tenendo conto che la stessa Cassa depositi e prestiti è azionista di Eni per un buon 10 per cento, tutto lascia pensare che questo passaggio sia solo un modo per sottrarre il controllo del metano dalle mani dell’assai poco malleabile amministratore delegato di Eni Paolo Scaroni, da sempre contrario a ogni ipotesi di scorporo, per decidere con minori vincoli i destini dell’immensa rete di gasdotti. Dall’altro lato, la proposta di Knight Vinke strizza l’occhio al governo italiano, sottolineando come la cessione sul mercato di Snam costituirebbe un enorme ricavo monetario da portare in riduzione dello stock di debito pubblico. E questo, naturalmente, porterebbe indiscutibili benefici ai cittadini italiani, che non si vedrebbero più costretti a subire le dure manovre restrittive per evitare all’Italia un destino analogo a quello di Grecia e Ungheria.
Al di là delle proposte e delle strategie comunicative adottate, colpisce come gli organi di stampa abbiamo puntato l’accento solo sui benefici per i consumatori e il mercato. Il modello utilizzato è lo stesso adottato decine di volte in passato quando si è trattato di dismettere buona parte del patrimonio costituito dall’industria pubblica italiana: la retorica sulle gestioni inefficienti, l’illegittima influenza della politica, l’ironia sui panettoni di Stato, l’indiscutibile superiorità della proprietà privata, gli effetti benefici della competizione e – dulcis in fundo – la riduzione delle tariffe per i consumatori determinata dalle liberalizzazioni. Le relazioni degli organismi di vigilanza e controllo, solitamente descritte come burocratiche e incapaci di capire la complessità e le esigenze delle imprese e delle banche private, diventano dogma quando l’obiettivo della loro reprimenda riguarda la proprietà statale.
Colpisce poi lo spaventoso appiattimento temporale con cui tutte queste analisi vengono condotte, curiosamente, proprio da coloro che non perdono occasione per accusare la politica di non pensare mai alle generazioni future. Un breveterminismo che, nell’ossessione del perseguimento del vantaggio immediato, mette in secondo piano – quasi fosse una variabile dipendente priva di importanza – ogni riferimento alla centralità strategica, all’interesse nazionale e allo sviluppo economico del paese. Il caso dell’Eni è davvero emblematico. Proprio nel momento in cui il disastro causato dalla British Petroleum nel Golfo del Messico e le crescenti difficoltà geologiche, tecniche e politiche rendono sempre più difficile e meno profittevole operare nel settore petrolifero (con i paesi possessori di idrocarburi che, grazie all’emergere di nuovi attori globali come Cina e India, sono riusciti progressivamente a spostare a loro favore i rapporti di forza a livello di divisione dei guadagni derivanti dallo sfruttamento dei giacimenti), si chiede al nostro campione nazionale di cedere il settore che, per ragioni storiche e per intelligenti scelte operate dal management negli ultimi anni, garantisce non solo un ingente flusso di cassa, ma anche un enorme potere contrattuale nei confronti dei paesi possessori di materie prime energetiche. Privare l’Eni della propria struttura industriale complessa significherebbe indebolirla a tal punto da spingerla in poco tempo fra le braccia di qualche multinazionale, provocando danni su tutta quella rete di imprese piccole e grandi che operano quasi esclusivamente al servizio dell’azienda fondata da Enrico Mattei. L’Italia, inoltre, sarebbe privata di un proprio rappresentante di peso nelle riunioni in cui vengono negoziati gli accordi che disciplinano il sistema mondiale delle fonti di energia, perdendo quindi la capacità di approvvigionamento autonomo faticosamente conquistata negli ultimi decenni. Infine, lo smembramento dell’Eni determinerebbe una drastica riduzione dell’attività di ricerca applicata che, dopo la dismissione totale o parziale di quasi tutte le partecipazioni statali in campo manifatturiero, costituisce oggi uno dei pochi punti di forza di una industria nazionale che, tranne rare eccellenze, attraversa crescenti e ben note difficoltà. Come scrisse alcuni mesi fa Marcello Colitti, “l’assurdità del piano di smembramento dell’Eni è così visibile che, se l’Italia avesse un sistema politico normale, nessuno lo prenderebbe sul serio”. Purtroppo sappiamo che non è così. La storia italiana degli ultimi vent’anni ci ha insegnato che quando alla cattiva ideologia si sommano corposi interessi privati a farne le spese è quasi sempre l’interesse nazionale.