La questione del rapporto tra i cattolici italiani e la politica tocca il cuore non solo della cultura politica del Partito democratico, ma anche della teoria dello stato che ispira l’architettura politico-istituzionale della nostra repubblica. Di qui la forza della proposta del Pd, partito che nasce dall’unione delle culture politiche egemoni nella Prima Repubblica. L’amalgama che tanto ci sforziamo di raggiungere, quella sintesi che finora non ha dispiegato le sue potenzialità, tocca infatti i problemi cruciali dell’Italia di oggi, a partire da quella crisi democratica che ha accompagnato lo sviluppo dell’egemonia liberale negli ultimi trent’anni.
Il Pd può trovare la sua funzione, ma soprattutto può ritrovare le sue ragioni storiche, affrontando le due convergenze, che da punti di partenza differenti hanno caratterizzato gli ultimi tre decenni. Da una parte la riscoperta di un nuovo rapporto tra economia e persona umana. Un rapporto non più dettato dall’individualismo ideologico che ha caratterizzato gli ultimi decenni, ma che deve essere ricostruito su un equilibrio diverso tra persona e comunità. E questo nuovo equilibrio è necessario ricostruirlo sulla base di parole che appartengono appieno alle culture politiche che hanno dato vita al Pd. Riscoprire il valore dell’uguaglianza, specialmente dopo la crisi economica più grave dal 1929 a oggi, può essere il modo per ricostruire un campo, anche semantico, finalmente autonomo dalla narrazione berlusconiana e conservatrice dell’Italia contemporanea. Qualcosa finalmente si è mosso, a partire dal seminario che i Giovani democratici hanno organizzato il 15 luglio scorso.
L’altro corno del dilemma, l’altro lato della medaglia neoliberista, è però la messa in discussione dello stato come ente non strumentale per il perseguimento dell’interesse generale. Interesse che per essere generale andrebbe pensato in base alle istanze espresse, democraticamente, dai cittadini della repubblica. Troppo spesso al cratos sono stati aggiunti prefissi che nulla hanno a che fare con il demos, alla ricerca di una neutralità del potere, una promessa di un futuro radioso, al di là del bene e del male, che non ha determinato però alcun cambiamento.
E anche su questo versante il Pd può dispiegare tutta la sua forza. È infatti dal cattolicesimo conciliare, quello da cui veniva la generazione di Aldo Moro, che il Pd può trarre ispirazione per dare nuova linfa al rapporto tra il cittadino e le istituzioni. E qui sono molto utili le riflessioni che Massimo Faggioli ha svolto su Europa di venerdí 23 luglio. Per costruire questa nuova teoria dello stato i cattolici del Pd possono essere molto utili proprio perché sono portatori di quella idea di mediazione politica che è la strada maestra per la costruzione democratica dell’interesse generale, ultimamente tradotta impropriamente con il termine “inciucio”. Sia chiaro, però, che questa è una battaglia culturale. Uscire dalla Seconda Repubblica è infatti prima di tutto un’operazione di cultura politica.
Sarà parso strano a molti che Nichi Vendola abbia preso a modello, per gli stati generali delle sue fabbriche, il meeting che annualmente tiene Comunione e Liberazione a Rimini. Ma chi conosce il mondo cattolico e ne conosce le trasformazioni avvenute negli ultimi trent’anni, a partire dall’elezione al soglio pontificio di papa Wojtyla nel 1978, sa che Cl è un modello di successo. Un modello che ha replicato all’interno del mondo cattolico, paradossalmente anticipandolo, il sistema istituzionale della Seconda Repubblica. Un leaderismo carismatico che prende sostanza politica nell’entusiasmo dei movimenti senza che il corpo sociale e istituzionale della chiesa sia coinvolto, cosí come è avvenuto nel paese a partiti e corpi intermedi negli ultimi anni.
Il riferimento al meeting di Cl evidenzia quindi una sostanziale continuità col modello ecclesiastico degli ultimi anni, ma anche con il sistema istituzionale della Seconda Repubblica. Ed è proprio questa continuità che rappresenta la forza maggiore della sfida di Vendola alla leadership di Pier Luigi Bersani, proprio perché siamo costretti, a partire dall’annuncio della sua candidatura, a sottostare alle regole dettate dal leaderismo carismatico. Una forza che è tanto maggiore quanto minore è l’impegno che il Pd profonde nella battaglia per uscire dalla Seconda Repubblica. Liquidare tutto questo come populismo poetico non agevola a comprendere la sfida. E paragonarlo a Silvio Berlusconi non significa evidenziarne la debolezza, ma riconoscerne la forza. Per capire la portata della sfida e per raccoglierne il guanto, i cattolici del Pd sono utili, se non indispensabili. A patto di riscoprire e far scoprire a tutto il Pd la forza più vera del cattolicesmo democratico. Forza che ha le sue radici in un riconoscimento della statualità come luogo, non solo istituzionale, di mediazione e non di imposizione.
Finché il campo di gioco sarà invece l’altro, quello dello stato delle istituzioni e delle decisioni, che vede sviluppare la competizione democratica solo attraverso il carisma del leader, ho paura che il modello Cl sarà l’unico possibile. Proprio per questo è necessario cambiare il campo di gioco. Solo così sarà possibile spostare la sfida sul campo a noi più congeniale e più utile all’Italia.