In nome (per carità) dei principi liberali e del diritto al dissenso contro tutti gli “stalinismi”, il Corriere della sera oggi equipara arditamente il caso Granata e il caso Veronesi. Il qualunquismo con cui vengono accostate la denuncia di rapporti non chiari con la criminalità organizzata all’interno del Popolo della libertà (denuncia che nonostante gli scrupoli garantisti dell’editorialista di via Solferino non appare del tutto campata per aria) e quella delle condizioni alle quali un senatore del Pd può accettare una nomina al vertice di un’Authority, ma soprattutto il paragone tra le modalità di discussione e la qualità del dibattito democratico nei due principali partiti italiani, può far ridere o può indignare, ma qui vorrei provare a farne lo spunto per una riflessione di fondo.
Non si tratta di essere favorevoli o contrari al nucleare. Anzi, proprio perché questo sito ha espresso una posizione assai più simile a quella di Veronesi che a quella prevalente nel Pd, vale la pena di discutere qui della questione. Il nucleare, a me pare, non è questione di coscienza né principio non negoziabile. Settimane fa quaranta intellettuali di area Pd, in testa proprio Veronesi, hanno liberamente sollevato il problema nel partito e a nessuno di loro sono state chieste abiure (proprio di qui, del resto, partiva l’articolo di Left Wing sopra citato). Semmai un po’ più complessa è la questione della libertà – da parte di parlamentari – di appoggiare o sostenere nello specifico il piano per il nucleare dell’ex ministro Scajola, tema su cui un partito sarà pure libero di avere una linea democraticamente discussa, se non da tutti pienamente condivisa; ma comunque nemmeno di questo stiamo parlando.
Lo dice Veronesi stesso: tre cose insieme – l’attività di medico, il parlamentare, il presidente di un’Authority – sarebbero impossibili da gestire anche per un uomo vitale e attivo come lui. Il problema però non è solo pratico, lo hanno sollevato Emma Bonino e altri proprio in sede di dibattito al senato: non è bello che a dirigere un’Authority indipendente di controllo venga nominato un parlamentare in carica, anzi sarebbe meglio che queste nomine non venissero proposte proprio a chi sta facendo o ha appena finito di fare attività politica; e se in passato anche nel centrosinistra c’è stato poco rigore su questo punto non è un buon motivo per non apprezzare che si cerchi di introdurre un costume più virtuoso. Stupisce la totale indifferenza dei commentatori, pur se liberali, rispetto a questo punto, pari forse solo all’altrettanto stupefacente indifferenza verso il merito della denuncia di Fabio Granata. E non si venga a dire che si apprezza la qualità “bipartisan” dell’offerta del ministro Prestigiacomo: in tutti i paesi del mondo “bipartisan” vuol dire un’altra cosa, vuol dire una scelta concordata tra maggioranza e opposizione, non certo la cooptazione di un membro dell’opposizione in spregio a una battaglia parlamentare che l’opposizione sta conducendo.
Infine, a me pare che il punto sia tristemente sempre lo stesso, anche se era una delle poche questioni che il congresso del Pd sembrava aver discusso e risolto: se il Pd debba essere un partito oppure no. Se il segretario del Pd e i capigruppo abbiano o no facoltà di chiedere ai parlamentari non una “disciplina di partito” in stile anni cinquanta, ma la condivisione di un’idea di democrazia in base alla quale, per esempio, controllati e controllori non possono essere le stesse persone, e di trarne le conseguenze. Se un senatore chieda i voti e faccia il parlamentare in rappresentanza di un’idea della democrazia e della partecipazione o soltanto in nome del suo indiscusso prestigio personale, spendibile oggi qui e domani da un’altra parte. Non stupisce che i giornali più o meno liberali facciano il tifo per la seconda ipotesi, espressione di una politica debole e capace solo di assemblare singole personalità. Stupisce semmai che dentro un partito che ha scelto di definirsi “democratico” siano in tanti a esserne tentati.