Tanto allarme e tanto moralismo per nulla, intorno alle due ragazze romane del tormentone sul “calippo” e la “bira”. Specialmente da commentatori progressisti, sconvolti dal fatto che due adolescenti intervistate da un giornalista televisivo, sulla spiaggia di Ostia, si esprimano in dialetto. Se ognuno facesse un carotaggio storico della propria famiglia lungo il XX secolo, prima di parlare, forse sentiremmo meno scemenze.
Fino a cinquant’anni fa le classi popolari non solo parlavano (esclusivamente) il dialetto, ma erano anche analfabete, a favore della pena di morte, pensavano che la verginità prima del matrimonio fosse un dovere della donna e che andare a puttane fosse la naturale vita sessuale dell’uomo. Eccetera. Mia nonna Ines (nata nel 1903) pensava più o meno tutte queste cose e ha parlato esclusivamente il suo dialetto per tutta la vita, nella quale ha visto solo Roma, Cascia e la provincia di Ancona. Mio padre e i miei zii, tuttora, sono incapaci di dire “birra” con due erre (io invece ci riesco, se mi concentro). Mia zia Gabriella, popolana del centro di Roma, veniva trattata con degnazione dagli insegnanti, che scuotevano la testa: “Che vuoi pretendere da queste ragazze nate con la guerra”. E invece no, puoi benissimo pretendere.
Se oggi vogliamo di più, per quelle ragazze di Ostia e per tutti noi, è perché molte cose sono cambiate. Come dicevano i maestri del socialismo nordico, è questo il miglior abito mentale della sinistra: “Forventingarnas missnöje”, l’insoddisfazione delle aspirazioni. Certo, ogni “insoddisfazione da aspettative” spezza la sinistra se si cancerizza nel suo contrario e diventa “superfetazione di invettive”. In Italia, peraltro, le cose sono cambiate (e in parte notevole migliorate, almeno fino a circa venti anni fa) assai più rapidamente che altrove. Anche per questo, certo, abbiamo accumulato notevoli contraddizioni, che però non sono assenti altrove. Avete idea di come si esprima una “coatta” di Los Angeles, Londra, Stoccolma, Lisbona? Mi sa che molti quest’idea non ce l’hanno, perché viaggiano solo da un albergo di lusso all’altro. E si abbandonano a sciocche ironie sui giornali, o ad ancor più sciocche invettive politico-sociologiche. Chissà quanti hanno detto le stesse cose di mia nonna nel 1948, concludendo: “E tu con questi vuoi fare la democrazia?”. E chissà che avrebbero detto (e cosa direbbero oggi, magari con Repubblica sotto il braccio) della nonna di mia moglie, una contadina ciociara, analfabeta e comunista da sempre, nata nel 1915. Eppure, grazie anche a coloro che con queste persone “volevano fare la democrazia”, e la fecero, sua nipote è oggi un’apprezzata studiosa di Antonio Gramsci (e non è proprio un caso, mi pare).
Nulla è più reazionario e regressivo dell’idea che quelle due ragazze di Ostia siano “vittime della tv”, tanto diffusa a sinistra, in un ceto giornalistico e intellettuale che si concentra ossessivamente sui media. A sinistra bisognerebbe concentrarsi invece sulla questione sociale, su diritti e interessi materiali. Il popolo per cui la sinistra si è sempre battuta non va né demonizzato né idealizzato. Spesso chi lo idealizzava, come Carlo Pisacane o i fratelli Bandiera, è finito linciato, da quel popolo. Anche il moralismo di oggi nasce da un’idealizzazione del passato, o del popolo “in astratto”. Una concezione conservatrice ed elitaria, ma soprattutto disfattista. Qualcuno, ammorbato da questa forma mentis, pensa per esempio che anche il romanesco delle due ragazze sia orrendo, e lo paragona a quello del Belli, senza pensare che non era certo quello del Belli il dialetto parlato dagli analfabeti di Trastevere nel 1820. E che il romanesco di Pascarella era già molto diverso. E quello delle due ragazze è diverso da quello che mia zia Gabriella parlava nel rione Pigna nel 1955, provocando lo sdegno dei professori. Sono gli stessi geni della sociologia e della politica convinti che la sinistra perda perché gli italiani sono ignoranti ed egoisti, e che lo siano per colpa di Berlusconi e delle sue tv, che li avrebbe cresciuti così.
Per molti di costoro, ad esempio, il linguaggio parlato a Roma oggi, chissà perché, non è un legittimo gergo giovanile espresso in un legittimo dialetto come il napoletano o il veneto, ma una degradazione coatta del linguaggio, un trito strumento da cabaret che ritrae personaggi da deridere facilmente, anche con scarse idee umoristiche.
Il popolo non ha bisogno né di prediche sprezzanti né di elogi ruffiani, ma di qualcuno che lo rappresenti, che ne difenda diritti e interessi. Ha bisogno cioè di organizzazione, perché possa rappresentarsi da sé, trovando e selezionando dentro di sé i propri rappresentanti. Avrebbe bisogno, in poche parole, di partiti. Partiti realmente democratici, e pertanto capaci di tornare a svolgere questa funzione – che è anche, senza dubbio, un fattore di elevazione sociale, culturale e morale – come ne furono capaci i partiti di massa del secolo scorso.
Nelle sezioni di un partito così, proprio questo troverebbero le due ragazze: persone come loro, con gli stessi studi, ma che abbiano imparato in quell’ambiente a pensare e ad agire in modo efficace, ovvero esempi e politiche di reale emancipazione. Così è stata costruita la democrazia italiana e solo così potrà ritrovare la sua vitalità. E solo così, dentro questa battaglia, potrà ritrovare un senso la sinistra.