Siamo all’inizio dell’anno scolastico, seguite per cortesia il piccolo ragionamento in due tempi di Roger Abravanel, guru della meritocrazia. Primo tempo: sono stati messi a punto dei test – i test Pisa e Invalsi – che misurano intelligenza e capacità dei ragazzi in età scolare. Essere intelligenti e capaci aiuta: conseguire un buon risultato nei test dovrebbe quindi essere sicuro indice della possibilità di avere successo. Di qua stanno le «competenze della vita», di là il «successo nelle società post-industriali». Tra le une e l’altro c‘è un nesso, che Abravanel descrive sul Corriere in questo modo: «Esiste una correlazione fortissima tra i risultati di questi test su uno studente di 14 anni e il suo reddito da adulto a 37». Le sorti dei nostri ragazzi si decidono dunque, a quanto pare, a 14 anni, sui banchi di scuola, quando il test è già in grado di dirci i redditi che con ogni probabilità verranno percepiti vent’anni più tardi.
Secondo tempo del ragionamento: dunque la scuola è importante. E siccome «l’unica variabile che determina il rendimento degli studenti» è la qualità dell’insegnamento, e siccome questa qualità è misurata dai test molto più che dai voti che i docenti rilasciano con qualche leggerezza, specie al Sud (ricordate lo scandalo sui 100 e lode, numerosi al Sud e stentati al Nord?), i genitori dovrebbero chiedere di conoscere i punteggi conseguiti in questa o quella scuola ai test, invece di preoccuparsi della media dei voti scolastici, e dei professori che mettono brutti voti o assegnano troppi compiti. In realtà, si preoccupano anche delle strutture, del tempo pieno, della mensa o della palestra e, naturalmente, fanno bene.
Il ragionamento finisce qua. E va bene che è rivestito da una patina di scientificità, ma quel che propone è alla portata di qualunque genitore con la testa sulle spalle. Tutti sanno infatti che le persone capaci hanno nella vita più fortuna delle persone incapaci, e che non sempre a voti alti corrispondono capacità e competenze di uguale altezza. Quel che nel ragionamento di Abravanel c‘è in più, però, merita altre due considerazioni: una dichiaratamente paradossale, e l’altra francamente polemica.
Cominciamo dal paradosso. La soluzione più meritocratica possibile per elevare la qualità dell’insegnamento potrebbe essere trovata facilmente agendo sul reddito dei docenti: è sufficiente infatti elevare gli stipendi dei professori, e tutto andrebbe a posto. Essendo il livello di reddito l’indicatore del successo nelle società post-industriali, di colpo avremmo una classe docente formata da persone che, busta paga alla mano, potranno dimostrare di essere assai capaci. E c‘è da giurare che dove gli insegnanti sono bravi, lì la qualità dell’insegnamento è alta: i nostri ragazzi ne trarranno sicuro beneficio, e i test Pisa e Invalsi si impenneranno di conseguenza. I docenti saranno di sicuro contenti, ma la Gelmini?
Il paradosso contiene naturalmente una verità: insegnanti ben pagati sono anche meglio motivati. Basta seguire un qualunque collegio dei docenti di inizio d’anno per accorgersi che oggi, invece, tra tagli agli scatti di anzianità e precari sull’orlo di una crisi di nervi, supplenti in cerca di cattedre e dirigenti in cerca di fondi, l’umore è decisamente sotto i tacchi.
E ora la polemica. Contro il criterio di valutazione assunto da Abravanel: la «fortissima correlazione» fra reddito e livello di capacità, intelligenza e competenze. Come dire: hai i soldi? Sei una bella testa! Non hai il becco di un quattrino? È perché sei un imbecille!
Non è un bel dire. Eppure nella retorica sulla meritocrazia che ormai ci sommerge spesso passano come ovvie e naturali correlazioni di questo tipo: l’articolo di Abravanel ne è un esempio non innocente. D’altra parte, chi può essere contro il merito? C‘è qualcuno che può usare slogan del tipo: “Premiamo gli incapaci!”, “Abbasso i meritevoli!”, o magari l’indimenticabile “Vieni avanti, cretino!” dei fratelli De Rege? No di certo. Dunque: è giusto riconoscere il merito. Ma, per favore, non assumiamo che il successo, e anzi il solo successo economico, sia il metro di tutte le cose: non monetizziamo grossolanamente l’intelligenza. E non fingiamo che, in società profondamente diseguali come quella italiana, in cui la forbice della disuguaglianza si allarga invece di ridursi, siano già risolti tutti i problemi di giustizia sociale così che chi sta in basso, oltre a star male, debba attirarsi pure l’accusa di essersela cercata.
E infine: facciamo che tutto quello che succede tra i 14 e i 37 anni abbia qualche valore agli occhi dei ragazzi e dei genitori, reddito o non reddito: altrimenti, dopo quell’età, chi li tiene più sui banchi di scuola?