C‘è qualcosa di avvilente nelle cronache, nei commenti e in tutto quello che quotidianamente capita di leggere e ascoltare sul Partito democratico. Onestamente, non è solo colpa del Pd. I suoi dirigenti, però, dovrebbero domandarsi come mai chiunque capiti a tiro, giornalista, politico o cabarettista, si senta libero di giocare col loro partito allo schiaffo del soldato. Per un certo mondo, lo sappiamo, è un’abitudine antica, che adesso però ha assunto tratti compulsivi, quasi patologici. Nel circuito della comunicazione, in particolare, è diventata un tic, una mania, una fissazione. E come dice il saggio: la fissazione è peggio della malattia. A questa spiacevole condizione si è aggiunto poi un altro problema. Infatti, parallelamente al venir meno della capacità di selezionare e formare gruppi dirigenti da parte dei partiti, si è progressivamente affermata, anche in questo campo specifico, un’impropria funzione di supplenza dei grandi giornali. E da ultimo, anche in seguito a una precisa scelta politico-editoriale del gruppo berlusconiano subito estesa anche ai giornali vicini, abbiamo assistito a una vera e propria invasione di agitatori e propagandisti. Il carattere complessivamente avvilente del nostro dibattito pubblico sconta anche questo fenomeno. E il dibattito sul Pd in modo particolare, per ovvie ragioni.
Proprio per questo è triste che nessuno, nemmeno tra gli intellettuali e i dirigenti di più lunga esperienza, abbia colto finora la principale novità di quel dibattito, che non è la raccolta di firme tra i parlamentari organizzata da Walter Veltroni, le vere o presunte minacce di scissione nel partito o nel gruppo parlamentare, gli attacchi al segretario o all’attuale gruppo dirigente bersaniano. La vera novità sta nel fatto che per la prima volta da molto, moltissimo tempo, discussioni e divisioni interne al Pd siano partite da documenti politici, frutto di una elaborazione collettiva, articolata e non occasionale, come base di riflessione e di confronto. Non dal discorso, dall’intervista o dall’estemporanea dichiarazione di questo o quel leader. Ci riferiamo in particolare al documento intitolato “Tornare avanti”, sottoscritto da diversi membri della segreteria del Partito democratico, e al documento Fioroni-Gentiloni-Veltroni, sottoscritto da 76 parlamentari.
Al riguardo, almeno finora, si è parlato soltanto di metodo, di questioni di opportunità e di galateo. Il merito è stato generalmente ignorato. Entrambi i testi, e i rispettivi firmatari, sono stati ridotti a caricature: i “giovani turchi” da un lato, gli “Oni-oni” dall’altro. Noi preferiamo parlare di gruppo di Orvieto e gruppo del Lingotto, perché qui è la differenza fondamentale tra loro: tra coloro che indicano l’atto fondativo del Pd nel seminario di Orvieto del 2006 e coloro che invece considerano il discorso di Veltroni al Lingotto di Torino, nel 2007, il vero atto di nascita del partito. Tra chi considera cioè il Pd come una risposta alla deriva populista e antidemocratica della Seconda Repubblica, e sua missione quella di cambiare decisamente strada, e chi al contrario considera missione del Pd portare a compimento la Seconda Repubblica, la “rivoluzione maggioritaria” e tutte le promesse di quella stagione. Parlare in questi termini dei due documenti forse avrebbe aiutato a capire meglio le ragioni di fondo di tante discussioni, ma si è preferito, almeno fin qui, non parlarne affatto. O ridurre tutto a questioni di forma.
E’ un grave errore, che nasconde un’incomprensione profonda della natura dei problemi che il Pd ha di fronte, perché muove da una diagnosi sbagliata. Sempre la stessa, dacché il Pd è nato. L’idea cioè che il problema siano le divisioni interne, la scarsa unità del gruppo dirigente. Questo problema esiste, ovviamente, ma è il sintomo, non la causa della malattia. Anche soltanto sotto il profilo dell’immagine e del messaggio che si manda all’esterno, il problema non sta nel fatto che i dirigenti si dividano, ma nell’impressione che a dividerli siano solo rivalità e interessi personali, se non addirittura la reciproca antipatia. Alzare il livello della discussione, per andare alla radice politica e culturale di quelle divisioni, discutendone apertamente, questo sì sarebbe nell’interesse del Partito democratico, che per essere tale dovrebbe, appunto, discutere. Ma sarebbe anche e forse soprattutto nell’interesse del suo gruppo dirigente, che per essere tale dovrebbe, innanzi tutto, dirigere. Non frenare. Altrimenti, inevitabilmente, il Partito democratico resterà dove sta. E non pare un grande obiettivo, onestamente.