Quella di Ed Milliband al congresso del Labour Party è stata una vittoria inaspettata. Alcuni sindacati, per sostenerlo, si sono spinti al limite delle regole: il sindacato Gmb (700 mila iscritti di varie categorie) ha in pratica aggirato la norma che vieta di imbustare insieme le schede per votare e la vera e propria propaganda pro-Ed. La soluzione è stata quella di usare buste diverse, certo, ma di inviarle insieme in una più grande. C’è chi ha protestato, ovviamente. Ma oggi è più utile capire la ragione di questo impegno, che ha fruttato a Ed Milliband il 60 per cento del voto sindacale (contro il 45 per cento circa del voto di partito e dei parlamentari). Il motivo è che ha vinto la connessione più efficace e più conseguente fra rappresentanza sociale e strategia politica. Ed Milliband è stato il più conseguente, e credibile, innanzi tutto nell’indicare la strada che serve al Labour party e al Regno Unito per uscire dagli anni in cui il boom è stato costruito su debito edilizio e speculazione finanziaria. Anche Ed Balls (altro brillantissimo uomo di Brown) aveva centrato queste tematiche, ma Milliband ha anche costruito la coalizione che serve per mettere in pratica i suoi intenti. E’ chiaro: se intendi costruire un’economia più centrata su produzione, salari e welfare, devi allearti con i soggetti interessati a un simile riequilibrio. E militare nei laburisti aiuta a comprendere che quei soggetti sono innanzi tutto i sindacati affiliati al partito.
Per questo, nel suo ultimo articolo sulla Stampa, Veltroni avrebbe dovuto prestare forse meno frettolosa attenzione al fatto che il giovane Milliband ha stravinto fra i sindacati, e diffidare dell’abusata definizione di modernizzatore, già tanto adoperata per Tony Blair. Se non altro perché Milliband ha tratto il suo successo da una diversa idea di modernizzazione rispetto a quella blairiana, sconfiggendo il fratello David, che del New Labour era stato invece un più convinto sostenitore.
L’elezione del più giovane Milliband mostra come si va orientando la sinistra europea. L’esegesi della Fabian Society, che l’ha sostenuto, spiega che il neosegretario, di sinistra, cercherà il “middle ground”, che però non vuol dire centrismo (come interpretato da Repubblica). Vuol dire appunto insistere nel ricercare il consenso che dal 1997 il Labour ha perso fra i percettori di redditi da lavoro medio-bassi (tema costante del dibattito fra i candidati). Non per nulla, nel frattempo, Ed Balls richiama l’attenzione sulla recessione continua della vicina Irlanda per indicare quanto sia fallimentare la strada seguita da Cameron: passare direttamente dalla sbornia fiscal-finanziaria ai tagli feroci porta soltanto alla miseria.
Completa il quadro la vicenda della socialdemocrazia svedese, sconfitta per la seconda volta (non la prima come hanno detto in molti) per due elezioni di seguito. Di fronte i socialdemocratici si sono trovati avversari capaci di non attaccare ideologicamente il welfare universalistico, ma di rendere più caro, specie per i redditi medio-bassi più soggetti al rischio-disoccupazione, far parte delle casse assicurative (modello “Ghent”) gestite dai sindacati. Quelle stesse che spiegano l’alta sindacalizzazione e che, con il loro elevato tasso di sostituzione, hanno condotto il capitalismo nordico a competere senza puntare su un fattore-lavoro a buon mercato.
Le riforme del centro-destra hanno fatto diminuire i sindacalizzati di circa il 10 per cento, tra l’altro indebolendo la capacità di mobilitazione socialdemocratica. Fatto questo che ha aumentato il peso del grande vantaggio liberal-conservatore nei media. Ne è uscita vincente la tesi del premier conservatore Reinfeldt, per cui le casse di disoccupazione e malattia sindacali sono fattore di allontanamento dal lavoro, da cui l’impedimento per competitività e crescita. Inoltre, tenendo troppo alti i salari, impedirebbero a tanti giovani di entrare nel mondo del lavoro. La retorica della sinistra che difende i garantiti è stata vittoriosa soprattutto perché più complesso era il compito socialdemocratico: spiegare come senza il nesso fra alte indennità e alti salari non sarebbe possibile l’intero modello nordico. Ancor più complesso oggi che molti, tranquillizzati dai toni apparentemente non ideologici di Reinfeldt, lo danno per scontato. Inoltre, la lunghissima permanenza al governo della socialdemocrazia rende utilizzabile il populismo anti-establishment contro il suo sistema di potere: tipicamente, per esempio, la grande forza sindacale.
Ad ogni modo, la conclusione di Ed Milliband è la stessa di tutta la socialdemocrazia europea: non si costruisce crescita stabile e degna dell’Europa senza gli strumenti (politici, organizzativi, culturali) del classico riformismo progressista (soprattutto socialdemocratico) europeo. Da questo punto di vista, rispetto ai tempi di Blair, c‘è una maggiore convergenza fra il Labour britannico (che si accinge a rivedere i tipici modelli di sviluppo anglo-americani) e la sinistra continentale.
Meglio così: gli ostacoli non si superano, e le argomentazione conservatrici e populiste non si battono, senza un programma comune (elaborato nelle fondazioni, nella Ue, nei singoli stati) che diffonda un’atmosfera meno ansiogena, ovvero una maggiore fiducia in un futuro di sviluppo.