Tralasciamo per un momento il merito e stiamo al metodo. Valutiamo cioè la conformità dei mezzi ai fini, la proporzione tra energie spese e risultati ottenuti, e la qualità di questi risultati. Ebbene, sulla base di una siffatta, spassionata, cinica analisi costi-benefici, dal punto di vista di Silvio Berlusconi, bisogna dire che l’intera gestione del “caso Santoro” è un fallimento che trova forse un solo eguale nell’intera storia della politica italiana: la gestione del “caso Fini”. Negli ultimi tempi, insomma, si direbbe che il presidente del Consiglio abbia perso non tanto la capacità, quanto la voglia di “fare politica”, almeno nel senso proprio dell’espressione. Non si capisce però cosa abbia da guadagnare, trovandosi al governo e non all’opposizione, e tanto più se davvero puntasse al Quirinale, da una tale radicalizzazione dello scontro. Se anche gli riuscisse di mantenere questa legge elettorale e rivincere le elezioni grazie alla divisione degli avversari, non c‘è bisogno di coltivare oscure teorie del complotto per prevedere che il colpaccio di farsi eleggere successore di Giorgio Napolitano, a questo modo, non potrebbe riuscirgli. Non c‘è bisogno di immaginare chissà quali oscuri burattinai pronti a scatenargli contro pentiti di mafia o pentite di materasso nuovi di zecca. E’ una questione di equilibri. L’ipotesi del cappotto berlusconiano non regge, perché un simile tentativo non potrebbe non sollevare, in qualsiasi società democratica e minimamente pluralista, potenti reazioni di rigetto, e controspinte tali da rovesciare anche un Berlusconi ancora nel pieno della sua ascesa. E non è questo il caso.
E’ vero, il premier può ancora contare sulla determinazione di Walter Veltroni e dei veltroniani, decisi a difendere a ogni costo il principio di un meccanismo elettorale che permetta alla minoranza più consistente di prendersi tutto (si tratti dell’attuale legge elettorale o della precedente, da questo punto di vista, il risultato potrebbe essere lo stesso). Un tale meccanismo è strumento a questo punto indispensabile a un leader sempre più isolato e incattivito, stanco di mediare, discutere e “fare politica” (parliamo di Berlusconi, s’intende). Il presidente del Consiglio dovrebbe però riflettere meglio su alcuni elementi di novità rispetto agli anni Novanta della sua travolgente discesa in campo. Elementi che cambiano parecchio il terreno di gioco. Per farla breve, il punto è che non c‘è davvero bisogno di ulteriori spinte alla radicalizzazione di un conflitto politico e sociale che sta già montando da sé, tanto meno c‘è bisogno di dargli un carattere ancora più marcatamente ideologico. Insomma, era proprio necessario, in un momento simile, richiamare in prima linea Daniela Santanchè?
Di questo passo, sulla linea del “tutto per tutto” e della polarizzazione dello scontro, i nemici del premier sono fatalmente destinati a moltiplicarsi. Perché è una linea irragionevole, eccessiva, autodistruttiva. Presidente del Consiglio, uomo tra i più potenti e più ricchi del paese, da sedici anni figura dominante della scena politica, non dovrebbe essergli difficile capire come la strada, il linguaggio e la retorica della destra radicale in rivolta contro l’establishment non faccia per lui. In primo luogo perché su quel terreno è la Lega, semmai, a giocare in casa. E in secondo luogo perché, Lega a parte, l’unica traduzione italiana possibile del Tea Party americano è il movimento di Beppe Grillo, e il suo Glenn Beck si chiama Santoro, non Santanchè. E tanto meno, per la Santanchè, può valere il modello di Sarah Palin, per le mille e fin troppo ovvie ragioni che distinguono la sottosegretaria di casa al Billionaire dalla senatrice Paola Binetti (e comunque ci ha già provato con la Destra di Francesco Storace, a giocare in quel ruolo, e i risultati non l’hanno premiata).
E così si torna al punto di partenza. E cioè a una domanda – per Berlusconi – che è questa: perché tessere con tanta foga la corda che gli avversari vorrebbero metterti al collo? La via della radicalizzazione, in una fase di crisi economica e di crescente disagio sociale, non può portare nulla di buono per il governo e tanto meno per il suo capo. Forse il presidente del Consiglio pensa che così facendo riuscirà ancora una volta a dividere il fronte nemico, spaccandolo tra moderati e intransigenti. Ma non siamo più negli anni Novanta, e la manovra questa volta potrebbe sortire l’effetto opposto: cementare un unico fronte di liberazione dal Caimano che vada dalla Fiom fino a Pier Ferdinando Casini, e magari persino a Gianfranco Fini, in nome della difesa della Costituzione e della democrazia. Un’ipotesi che può apparire irrealistica e persino grottesca in tempo di pace, ma che eserciterebbe tutto un altro richiamo tra le fiamme di una nuova guerra civile, sia pure solo simulata, mimata sul terreno ideologico e combattuta sul terreno mediatico, e soltanto su quello. Almeno speriamo.