Se si volesse raccontare con poche parole cosa è stata la lunga fase di egemonia liberista nel mondo occidentale, si potrebbe dire che la politica fu costretta a spogliarsi progressivamente delle proprie competenze e dei propri strumenti regolativi (quelli che in gergo venivano chiamati, non a caso, “strumenti di politica economica”), delegandoli interamente al mercato, unanimemente identificato come unica istituzione capace di garantire allocazioni efficienti che massimizzassero il benessere sociale. Questo processo di spoliazione è stato attuato obbligando le autorità pubbliche a scrivere delle regole del gioco che tutelassero “i mercati” da ogni infiltrazione esterna (comprese quelle dello Stato stesso, ovviamente) e che impedissero di alterarne il libero funzionamento. Il mantra era che “lo Stato non è la soluzione, ma il problema”, e le migliori energie intellettuali si sono spese per erigere dei robusti firewall intorno al settore pubblico, lasciando campo libero e incontrollato al settore privato, in modo che questo potesse crescere e prosperare, naturalmente a beneficio di tutti. Il repentino transito, come attraverso un buco nero, in un mondo esattamente opposto a quello descritto dai sostenitori del liberismo ci ha trovati, eufemisticamente, impreparati. Ma se nel resto del pianeta, dopo decenni di pensiero unico, è almeno iniziata una lunga e complessa fase di discussione culturale e politica, in Italia il dibattito pubblico resta dominato in larghissima parte da acritici adoratori del culto del mercato. Una situazione che sembra aggravata dalla formidabile propensione al conformismo della stampa italiana: ciascuno ripete ciò che scrivono gli altri o ciò che gli altri dichiarano alla radio o alla televisione. Nascono così le tendenze, le mode, i concetti e le verità indiscutibili. Tutto questo, se paragonato al fermento culturale che domina sui quotidiani e nei circoli intelellettuali del resto dell’occidente, contribuisce a dare un’assai poco invidiabile atmosfera vintage ai dibattiti nostrani. Con l’aggravante che i sostenitori del liberismo, invece che essere sul banco degli imputati a difendersi dopo trent’anni di assoluta dittatura culturale, recitano ancora, apparentemente indisturbati, la parte dei pubblici accusatori.
Ultima vittima di questa furia ideologica è stato Guido Rossi, colpevole di aver recensito il nuovo libro di Richard Posner – uno degli iniziatori della cosiddetta “law and economics”, da sempre accostato alla Scuola di Chicago per la sua fede del mercato – e di avere elogiato la capacità critica con cui il suo saggio ha smontato pezzo per pezzo l’imbroglio ideologico su cui si è fondata la più recente fase del capitalismo mondiale. Un po’ troppo forse per chi vive ancora nel pieno dei ruggenti anni Novanta, ancora immerso nelle fantasticherie sull’economia della conoscenza, del tempo libero e dell’intrattenimento. Stavolta ad agitare il turibolo e a cantare la liturgia del mercato e della flessibilità sono stati Piero Ostellino e Antonio Martino. Il primo, afferrata la bacchetta del maestro, è salito in cattedra per spiegare che né Posner né Rossi hanno capito dove stia la Modernità (scritta pomposamente in maiuscolo). La colpa della crisi? Nella politica, non nel mercato. L’incrinazione dell’inscindibile binomio capitalismo-democrazia? Sciocchezze di una persona accecata dalla furia ideologica anticapitalista e anti-mercato. La precarietà? Una condizione umana “naturale” da considerare come un fattore di elevazione sociale. Curioso che Ostellino non ricordi come le banche centrali, secondo lui imputate numero uno della crisi, siano guidate da tecnici rigorosamente indipendenti dal potere politico proprio in ossequio alla convinzione comune che i politici si occupino esclusivamente del proprio interesse personale mentre i tecnocrati, non dovendo essere eletti dal popolo, pensino invece al bene comune, trasformandosi in una sorta di dittatori benevoli. Ma ancora più incredibile è scoprire che Ostellino non ricordi che fu lo stesso Milton Friedman – sicuramente non tacciabile né di simpatie anticapitaliste né di quella vocazione ultraregolamentativa tipica di giuristi come Posner e Rossi – a considerare il mercato solo una condizione necessaria (e non sufficiente) alla libertà e alla democrazia politica.
Antonio Martino, pur giustificando la sua irruenza con i suoi trascorsi a Chicago, è stato pure più netto: secondo lui il problema non è il libro di Posner, ma l’ignoranza di Rossi in economia. Ma nell’accusare Rossi di aver confuso la critica alla teoria dei mercati efficienti con una critica al libero mercato, Martino dimentica che le due cose sono fra loro inscindibili: come giustificare altrimenti l’idea che il mercato debba essere lasciato operare liberamente, se si ammette che questo possa funzionare male?
Scriveva Benedetto Croce all’inizio del Novecento: “Ho detto che i liberisti sono, ben più dei socialisti, idealisti, o, se si vuole, ideologi. […] Con ciò non intendo dir nulla in biasimo di questi onesti e radicali e consequenti liberisti: ché anzi la mia sincera ammirazione va ad essi, né l’insuccesso è la loro colpa individuale. Ma voglio semplicemente affermare che, se gl’ideali, al dir del filosofo, hanno le gambe corte, quelle dell’ideale dei liberisti sembrano poi cortissime”. E come dargli torto.