Mentre Sergio Marchionne se ne stava comodamente seduto sulla poltrona di Che tempo che fa e rispondeva alle incalzanti domande di Fabio Fazio, colpiva il modo con cui proponeva sistematicamente l’eguaglianza fra “industria italiana” e “Fiat”, quasi che le due espressioni potessero essere usate come sinonimi. Non è così. Secondo il rapporto annuale Eurostat del 2009 il settore della produzione di mezzi di trasporto in Italia non è affatto fra i comparti industriali più diffusi in termini di valore aggiunto (guidano infatti la classifica i cosiddetti business services e le costruzioni) e non è nemmeno fra i settori in cui il nostro paese mostra la maggiore specializzazione (in testa ci sono il tessile, le forniture di componentistica e le altre attività manifatturiere). La Fiat, casomai, si identifica interamente con l’industria automobilistica nazionale. E questa è un’anomalia tutta italiana, creatasi nel corso degli anni grazie a scelte di politica industriale che hanno liberato la casa di Torino di tutti i concorrenti sul mercato interno. In tutti i principali paesi che si occupano di produzione di auto per i mercati di massa i produttori sono almeno due o tre: Renault e Psa in Francia; Volkswagen, Mercedes-Daimler e Bmw in Germania; Honda, Toyota e Nissan in Giappone; Gm e Ford negli Usa. Una situazione che rende preoccupante la prospettiva del disimpegno di Fiat dal territorio italiano: con lei si chiuderebbe, dopo oltre un secolo, la storia a tratti gloriosa dell’industria automobilistica italiana di massa.
Questa pressoché totale identificazione fra Fiat e industria automobilistica italiana torna però molto comoda per effettuare alcuni confronti internazionali con gli altri paesi. Anche considerando l’indotto, il settore automobilistico italiano occupa 166 mila persone, poco meno della metà di quante ne occupa in Francia e un quinto di quante ne occupa in Germania. E se è vero – come dice Marchionne – che la produttività italiana del settore è la più bassa fra il quartetto di testa (circa 56 mila euro pro-capite in Italia, contro i 61 della Francia, i 71 del Regno Unito e gli 81 della Germania), questo differenziale è più che colmato dal gap nel costo del personale esistente fra i vari paesi: se un lavoratore italiano ha un costo di circa 40 mila euro annui, questo costa 50 mila euro in Francia, 52 mila in Inghilterra e 66 mila in Germania.
Forse un dato che può aiutarci a capire perché Fiat abbia tutti i problemi che Marchionne lamentava nella sua intervista è quello del valore aggiunto. Il comparto della produzione di auto in Italia ha prodotto nel 2006 qualcosa come 927 miliardi di euro, un risultato che è pari a poco più di metà di quello francese (1627 miliardi di euro) e a un settimo di quello tedesco (6826 miliardi di euro). Sta qui il vero nocciolo della questione: se si vuole continuare a produrre autovetture a basso valore aggiunto è normale che in Europa occidentale non si possano realizzare sufficienti margini di profitto, probabilmente nemmeno con una scala di produzione molto grande. E anche se fosse possibile, non sarebbe saggio produrre autovetture di bassa fascia in Europa sapendo che queste hanno mercato soprattutto nelle economie emergenti. Se ne sono accorte molti anni fa quasi tutte le case automobilistiche continentali che hanno progressivamente spostato la produzione di utilitarie e di veicoli di fascia medio-bassa verso l’Est Europa, l’India e la Cina, conservando invece in casa le automobili che garantivano alti guadagni per unità di prodotto. Si tratta di una questione dirimente per capire quale strada vorrà prendere Fiat, sia nel suo complesso, sia per quanto riguarda i suoi stabilimenti italiani. Eppure proprio su questo Marchionne continua a essere evasivo, liquidando le domande scomode quasi con fastidio, o dando per scontato che dal cilindro dei creativi di Torino salteranno fuori quei 2-3 modelli di alta qualità capaci di annullare in poco tempo il gap di valore aggiunto che ci separa dagli altri paesi europei. La storia recente – si pensi alla Alfa Romeo 156 – non fa ben sperare a riguardo. Di una cosa però siamo certi: annunciare che, facendo un po’ di innovazione di processo e riorganizzando orari e turni, si produrrà la Panda in Italia pagando gli stessi salari che gli operai tedeschi percepiscono per produrre la Passat (che si vende a un prezzo più o meno triplo) è una presa in giro che i lavoratori italiani non si meritano.