Di giorni il ventesimo secolo ne conta più o meno trentaseimilacinquecento, ma possono bastarne tre per tracciare la storia d’Italia. O almeno: questo è l’intento del libriccino di Ernesto Galli della Loggia, Tre giorni nella storia d’Italia, che sceglie il 28 ottobre 1922 (Marcia su Roma), il 18 aprile 1948 (vittoria della Dc sul frontismo socialcomunista) e il 27 marzo 1994 (prima vittoria di Silvio Berlusconi), per mostrare i caratteri originali del Novecento italiano. Le tre date hanno un tratto comune evidente, e uno meno evidente. È evidente infatti che in tutte e tre le circostanze ha preso inizio un ciclo politico lungo, che ogni volta ha potuto stabilirsi solo dopo qualche evento traumatico esterno al sistema politico (rispettivamente: squadrismo fascista, Seconda guerra mondiale, Mani pulite), e contro un’altra parte – in breve: i comunisti – presentata al paese come un’alternativa inaccettabile. È invece meno evidente il fatto che in tutti e tre i casi la vittoria ha anche significato l’impossibilità che si costituisse “un’area significativa di orientamento consapevolmente ed esplicitamente conservatore”, che è poi il vero cruccio dell’autore. Al suo posto abbiamo avuto in sorte il fascismo, la Democrazia cristiana che prendeva anche voti conservatori e di destra ma non era un partito di destra, e Forza Italia, che la destra ha sdoganato senza però affatto iscriversi nel solco dei partiti conservatori europei. A causa di ciò, invece di una schietta democrazia liberale abbiamo avuto nell’ordine: una democrazia “brutale e ultrademagogica”, una democrazia partitocratica, una democrazia populistica. Sistemi politici fondati cioè sul demos, interpreti più o meno genuini della volontà della nazione, ma dai tratti assai poco liberali (quando non francamente autoritari).
Il cruccio dell’autore sembra farsi però vero e proprio rammarico quando, dopo il ventennio fascista e il quarantennio democristiano, si giunge al ventennio in cui siamo ancora immersi. Ed è sul senso storico-politico del berlusconismo che vale la pena soffermarsi, perché Galli della Loggia dice al riguardo cose interessanti: tanto più in questi giorni, in cui è davvero difficile resistere alla tentazione di parlare degli altri pittoreschi sensi che colorano l’autunno del premier.
Guardiamo dunque al significato di sistema. Galli della Loggia lo presenta così: “La nostra storia ci ha costretto, se volevamo finalmente entrare nella normalità, a ricorrere a una figura che sicuramente rappresentava, e tuttora rappresenta, un’assoluta anomalia! È giocoforza ammettere, insomma, che l’artefice di fatto del bipolarismo italiano è stato indiscutibilmente Berlusconi”.
Ora, sarà pure giocoforza ammetterlo, ma non va ammesso lo stesso. E non per puro capriccio, ma per l’inosservanza, da parte di Galli, di una distinzione fondamentale: quella fra bipolarismo e alternanza. Galli fa scivolare l’uno sull’altro i due concetti. Scrive infatti che Berlusconi è stato l’artefice del bipolarismo, mentre non lo è stato affatto per la buona ragione che di un artefice non c’era per nulla bisogno: abbiamo vissuto in un sistema bipolare, e in un mondo altrettanto bipolare, per tutto il secondo dopoguerra, senza avere bisogno della discesa in campo di Berlusconi.
L’alternanza, invece, è un’altra cosa. C‘è stata, è vero, solo negli ultimi quindici, vent’anni, ma per averla non sarebbero bastati mille Berlusconi, se non fosse mutato, con la fine dell’Unione Sovietica e della divisione del mondo in blocchi, l’ordine politico mondiale. Berlusconi, dunque, non è l’artefice del bipolarismo, che c’era già, e non è l’artefice dell’alternanza, che ha cause internazionali più profonde; è invece artefice del bipolarismo nella forma anomala che proprio il premier gli ha impresso costituendo uno dei due poli non sulla base di una riconoscibile cultura politica, conservatrice o no che fosse, ma di una presa personale e proprietaria sul suo partito (nelle parole di Galli della Loggia: “Soprattutto dalla sua fortuna economica e dalla proprietà di Mediaset, insomma, dipende l’effettività della leadership di Berlusconi sull’insieme dei «suoi» deputati e senatori”). Non basta perciò osservare incidentalmente che Berlusconi rappresenta ancora adesso un’assoluta anomalia, ma occorre avere presente che l’ingresso nella normalità dell’alternanza può benissimo prescindere da lui e, soprattutto, dalla forma attuale del sistema politico bipolare, fondato su partiti personali e proprietari, per nulla assimilabili ad omologhi partiti europei.
Dopodiché, è vero: nel biennio ’92-‘94 la furia antipartitocratica tracimò per la prima volta a sinistra, e se si guarda ai suoi effetti sistemici, non fu certo un bene. Ed è vero pure che il berlusconismo “non è il frutto di qualche oscura degenerazione morale che ha colpito una parte del popolo italiano”. Di questi tempi viene difficile, ma lo diciamo ugualmente. Se però vogliamo davvero sbarazzarci della storiografia della parentesi, per cui le cose brutte che accadono all’Italia, dal fascismo in poi, sono state solo escrescenze malate rispetto al corpo sano della nazione, dire tutto questo non basta. Bisogna anche diminuire la dose di continuismo contenuta nell’interpretazione di Galli. Per lui, par di capire, data la storia d’Italia (che non è quella dell’Islanda o del Canada), questa è la destra che doveva venirne fuori. Noi non ne siamo così sicuri. E comunque, fra il prevalere dei partiti sulle istituzioni caratteristico della Prima Repubblica, e il rapido declino degli uni e delle altre nel corso della seconda, non ci resta che sperare nella terza. E in un sistema politico un po’ meno condizionato da risorse private, economiche e mediatiche, anche perché di nuovo capace di produrre e alimentare risorse pubbliche, civili e politiche.