Nel dibattito a caldo sulle primarie milanesi, due mi sembrano le affermazioni degne di commento: la prima è che la sconfitta di Stefano Boeri sarebbe a giudizio quasi unanime una sconfitta politica del Pd, replica della sconfitta pugliese di Francesco Boccia contro Nichi Vendola. La seconda, per alcuni una conseguenza della prima, è che le primarie non sembrano funzionare come ci si aspettava, sia per la partecipazione sia per l’esito.
Sotto il primo profilo, credo che dovremmo interrogarci sul perché si è registrato questo sfasamento vistoso tra le indicazioni del principale partito e gli elettori dello schieramento di centrosinistra. Scarto subito alcune possibili risposte. Boeri, ovviamente, non ha perso perché “uomo dell’apparato”. Non credo nemmeno all’argomento, non privo di ironica perfidia, per cui l’investitura del Pd funzionerebbe più come una maledizione che come un elemento di forza. Non perché non vediamo spesso all’opera un simile effetto in questa fase di antipolitica montante, ma perché non reputo gli elettori milanesi così autolesionisti da votare contro un candidato gradito pur di fare dispetto al Pd. La candidatura di Boeri era semmai un’applicazione da manuale delle indicazioni che ci sentiamo ripetere continuamente da tutti i commentatori: una personalità esterna presa dalla società civile, moderato, espressione di quel centro dinamico che guarda a sinistra (ma non troppo) che dovrebbe essere protagonista della modernizzazione del paese. Sulla carta era insomma per molti versi il candidato perfetto per Milano, quello che avrebbe garantito lo “sfondamento al centro” necessario per vincere in questa città. Il Pd milanese non ha messo in campo un proprio uomo, insomma, perché ha compiuto questa scelta strategica. L’elettorato, però, non lo ha seguito. Perché?
Una prima possibile risposta è: era sbagliata la strategia, perché l’elettorato che si vuole attrarre o non esiste o non è interessato a questo tipo di operazione o comunque non ha visto in Boeri la personalità giusta. Si può anche declinare questo tipo di argomentazione rilanciando l’idea di una linea centrista e rincarando la critica verso il Pd: il problema di fondo sarebbe l’assenza di una chiara opzione riformista; il Pd risulterebbe cioè comunque poco credibile in questo tipo di operazioni a causa della sua incerta fisionomia.
Una seconda risposta è che in generale alle primarie non va a votare l’elettorato potenziale cui il Pd dovrebbe rivolgersi, e quindi il voto delle primarie risulta sempre condizionato da quella fetta di elettorato militante e ideologico che finisce per premiare i candidati più radicali a danno dei moderati. L’assunto è che l’elettore non voglia o non sia in grado di fare quel ragionamento che hanno fatto i dirigenti del Pd nell’indicare Boeri, che porterebbe alla scelta di un candidato in cui ci si identifica di meno ma che ha maggiori possibilità di vincere.
Questa seconda risposta alla domanda relativa all’insuccesso di Boeri si collega alla questione più generale sull’opportunità di continuare a celebrare elezioni primarie che si traducono in schiaffi al partito che le promuove e vedono una partecipazione calante nel tempo. Quello della scarsa funzionalità delle primarie entro una logica di coalizione tra partiti è un punto sottolineato molto bene da Michele Salvati sul Corriere della sera di oggi, che ci spiega come le primarie sono nate e funzionano bene in un sistema bipartitico, in cui i partiti non hanno né struttura né identità ideologica, ma sono “istituzioni contendibili da parte della società civile e la loro linea politica è definita da chi vince le primarie”. Nell’attuale configurazione del centrosinistra, ove continua a giocare un ruolo rilevante l’iniziativa di partiti strutturati (per cui abbiamo ad esempio il candidato del Pd contro il candidato di Vendola), esse corrono sempre il duplice rischio di risolversi in consultazioni inutili quando il Pd è in grado di esercitare una propria egemonia, o di diventare una trappola per il Partito democratico quando esso si sbilanci a correre qualche rischio, come è accaduto a Milano e in Puglia. Somigliano insomma sempre di più a un gioco in cui il Pd può solo perdere.
Può darsi che in ultima analisi la lettura corretta del risultato milanese sia semplicemente che la personalità di Stefano Boeri ha convinto meno di quella, più conosciuta e popolare, di Giuliano Pisapia. È tuttavia prevedibile, anche alla luce dei suoi effetti sui gruppi dirigenti locali che hanno scelto Boeri e che hanno già offerto le loro dimissioni, che l’esito milanese possa comunque portare a un cambio di strategia del Partito democratico, con la rinuncia a rincorrere fasce di elettorato che comunque non sembrano interessate a farsi corteggiare, per puntare su candidati in grado di raccogliere il consenso convinto dei propri elettori. Sempre ammesso che non si decida di rivedere quell’unicum politico che sono le primarie di coalizione, come già qualcuno suggerisce.