La storia del rapporto tra partiti di sinistra e movimenti studenteschi è una storia complicata, fatta di infatuazioni e strumentalizzazioni reciproche, dissensi profondi e provvisorie ricomposizioni. Da parte della politica non è però mai venuta meno l’attenzione alle rivendicazioni dei movimenti e anche alle loro dinamiche interne, nella consapevolezza di quanto le une e le altre fossero espressione dei cambiamenti che attraversavano l’Italia. Negli ultimi anni questa attenzione si è fatta però molto incostante e quasi occasionale. E questo è un problema per la politica, ma anche per il movimento.
La contestazione di oggi parte dalla riforma universitaria e allarga subito il campo all’impossibilità per i giovani di entrare davvero nell’età adulta, ai costi della crisi, ai diritti del lavoro. Tutto bene, tutto giusto, tutto pienamente condivisibile. Fino a quando, improvvisamente ma non imprevedibilmente, questo movimento cambia volto. Il 14 dicembre, mentre il governo incassa la fiducia, lo spettacolo è cupo: spranghe, sampietrini, bombe carta, il centro di Roma in fiamme. La parte non-violenta del movimento emarginata e la psicosi di Genova che rischia di tornare ad accendere gli animi.
E’ la consapevole strategia di una parte finora minoritaria di quel movimento che mira così ad allontanarne o quanto meno a emarginarne le componenti democratiche. Una minaccia di cui alcuni organi di stampa e una parte dello stesso Partito democratico sono sembrati drammaticamente inconsapevoli. Pensare di recuperare consensi insinuando che le scene di guerriglia urbana siano da addebitarsi ad agenti infiltrati (che probabilmente c’erano) o a black bloc (c’erano certo anche loro, almeno se con “black bloc” intendiamo semplicemente e genericamente quelli che in Francia chiamano “casseur”) può avere conseguenze pericolose. Non spendere una parola chiara di condanna delle violenze rivela un atteggiamento pigro nell’analisi, culturalmente povero e politicamente dannoso, che rischia di offrire una sponda alla teoria secondo cui viviamo in uno stato di polizia in cui le forze dell’ordine sono il primo nemico sulla strada della lotta contro i poteri costituiti. Una visione paranoica in cui il Presidente della Repubblica e l’ultimo finanziere pari sono, perché sono il “potere” (i magistrati, invece, sono sempre eroi, chissà perché).
Questo atteggiamento, oltre a esporre Repubblica e qualche influente senatrice al rischio di farsi spiegare dal questore di Roma che il famoso infiltrato era in realtà il sedicenne figlio di un ex br, rende più difficile impedire un’escalation che danneggia tanto il movimento quanto i suoi possibili interlocutori politici. E finisce, paradossalmente, per fare il gioco di chi, nella maggioranza e nel governo, soffia irresponsabilmente sul fuoco, con proposte assurde e ben oltre il limite della provocazione, come quella dell’arresto preventivo.
A dieci anni da Genova, chi è stato dentro questo movimento può scegliere due strade: raccogliere l’eredità politica di alcune battaglie che hanno avuto un valore, penso ad esempio alla Tobin Tax, rientrata dopo la crisi del 2008 nel dibattito pubblico e nelle ricette dei partiti di sinistra di tutta Europa, o invece concentrarsi soltanto sul rapporto tra movimenti e ordine pubblico.
Il rischio è che maturi una cultura del contropotere che nega partiti, sindacati, corpi intermedi. Una cultura che pesca nell’antipolitica, alimentata dalla distanza tra le aspirazioni di chi investe nella propria formazione e i risultati di questo investimento, che rischiano di essere solo insicurezza e frustrazione. E’ questo il terreno su cui misurarsi, per il Pd e per il sindacato, a partire da una lettura autonoma della crisi economica e sociale.
Dentro il movimento, ma anche da parte delle forze politiche e dei mezzi di informazione, non serve una generica assoluzione collettiva. Al contrario, serve durezza sul discrimine tra violenza e non-violenza. E serve uno sforzo di rilegittimazione della funzione delle istituzioni democratiche, dei partiti e delle forze sociali che negli anni lunghi del berlusconismo hanno perso peso e credibilità (e il movimento questo lo coglie lucidamente). Uno sforzo che deve passare per la capacità di offrire una prospettiva credibile, più che per una serie di politiche settoriali.
E’ infatti la crescente depoliticizzazione degli stessi movimenti a esporli, oggi più che mai, alla deriva verso la violenza cieca, verso il ribellismo fine a se stesso, in una dinamica che fino a ieri era tipica più degli stadi che delle piazze. E’ l’assenza o la debolezza delle organizzazioni politiche a produrre questa deriva, o quanto meno ad abbassare gli argini che tradizionalmente la contenevano.
A luglio in tanti avranno il cuore e la mente a Genova, per i dieci anni dal G8. Lì guardano anche i teorici dello scontro frontale con il “potere”. Alla sinistra il compito di dire semplicemente, e per il bene di tutti, la verità: il 14 dicembre una parte delle organizzazioni del movimento ha scelto la violenza gratuita, arrecando un danno enorme al movimento stesso e alle sue ragioni. Attenzione, dunque, ai nipotini di Toni Negri e a chi vorrebbe riportarci tutti ai suoi tempi. Un passato che ha prodotto lutti e violenze senza ragione, e che in buona misura ha prodotto anche questo presente.