Il modello tedesco sembra essere diventato improvvisamente di gran moda, almeno per quanto riguarda le relazioni industriali. Dal Corriere della sera al Messaggero, dalla Stampa al Sole 24 Ore, non c’è editorialista che per sostenitore gli accordi di Mirafiori non porti a esempio la Germania. Persino Matteo Renzi, dovendo in qualche modo argomentare la sua posizione a favore di Sergio Marchionne, l’ha messa così: “In Germania i sindacati hanno fatto accordi intelligenti e il mondo delle auto va alla grande. Perché noi no?”. Sta di fatto che con la Germania, con i sindacati e con il cosiddetto modello tedesco, l’accordo di Mirafiori non ha nemmeno la più lontana parentela. Sarebbe ingiusto, però, prendersela con Renzi, che si limita a leggere i giornali e a ripetere quello che ci trova scritto (e non è nemmeno colpa sua se buona parte dei giornali italiani, per un verso o per l’altro, sono controllati dalla Fiat).
E’ storia vecchia. Prima andava di moda il sogno americano, a forza di economia della conoscenza, dell’intrattenimento e del tempo libero, farcita con la new economy che avrebbe dovuto liberarci dalle fatiche del lavoro manuale. Poi fu il turno del welfare delle opportunità inglese, del mercato del lavoro spagnolo, della deregulation irlandese, della flexsecurity danese. Ora è il turno della Germania. La cosa può suonare strana se si pensa che non più di quattro anni fa uno dei best seller della saggistica nostrana, opera di Francesco Giavazzi e Alberto Alesina, editorialisti, rispettivamente, del Corriere della sera e del Sole 24 ore, si intitolava Good Bye Europa, e alla Germania dedicava pagine tutt’altro che lusinghiere. Evidentemente, dopo la caduta in disgrazia delle tigri asiatiche e adesso pure della tigre celtica, e date le persistenti difficoltà dell’economia americana, la Germania era l’unica alternativa rimasta.
Naturalmente, dagli articoli di questi giorni vengono doverosamente elusi tutti i punti critici del famoso modello tedesco, a cominciare da un sistema bancario che tutt’ora versa in condizioni disastrose, sostenuto da continui finanziamenti pubblici, che si sono portati via finora oltre l’11% del Pil (ma la Commissione europea ci informa che gli stanziamenti sono arrivati fino al 24,3% del Pil), fra garanzie, salvataggi e nazionalizzazioni. Il tutto senza contare che le banche tedesche hanno in cassa 184 miliardi di dollari di titoli pubblici irlandesi, 238 miliardi di dollari di titoli spagnoli, 190 miliardi di quelli italiani, 47 miliardi di titoli portoghesi e 45 miliardi di titoli greci. Facendo le somme, la Germania sarebbe esposta con gli odiosi PIIGS per oltre 700 miliardi di dollari, una cifra pari all’intero piano Paulson per il salvataggio degli istituti finanziari privati americani.
Sotto questa luce anche la generosità della cancelliera Merkel verso gli indisciplinati paesi del Mediterraneo – quelli che da anni trainano la crescita economica tedesca proprio grazie alle loro bolle immobiliari, alla spesa pubblica fuori controllo, ai conti truccati e ai loro crescenti deficit commerciali – si trasforma in sanissimo ed egoistico interesse nazionale. Ma anche gli elementi del modello tedesco che si elevano a esempio da seguire per noi scolaretti indisciplinati sono presentati in modo quantomeno tendenzioso.
L’articolo di Roger Abravanel pubblicato ieri sul Corriere della Sera ne è un chiaro esempio. Si individua nella flessibilità del mercato del lavoro il segreto del successo tedesco, omettendo di ricordare che le famose riforme realizzate dal governo Schroeder, a differenza di quanto è stato fatto in Italia, hanno puntato tutto sulla flessibilità interna alle aziende (come ben messo in evidenza da Giuseppe Ciccarone e Enrico Saltari su nelMerito.com), mentre da noi si parla solo di flessibilità esterna (per gli amici: licenziamenti e precarietà). Si racconta poi di una massiccia delocalizzazione industriale usata come ricatto per i lavoratori, ignorando il fatto che nell’ultimo decennio la Germania ha sì delocalizzato le fasi meno intensive della ricerca e più intensive di lavoro a basso contenuto tecnico verso i paesi dell’Est Europa e verso il Nord Italia, ma ha contemporaneamente sviluppato sul proprio territorio nazionale – grazie a massicci investimenti pubblici e privati – i comparti più tecnologicamente avanzati delle stesse industrie, garantendosi così la permanenza in settori che altrimenti avrebbe dovuto abbandonare. In poche parole: l’esatto contrario del modello Marchionne, che invece vuole importare ciò che era prodotto in Polonia – la Panda – a Pomigliano. Infine, si invita l’Italia ad abbandonare una “visione ottocentesca dell’economia”, ad accantonare l’industria per concentrarsi sui servizi, ignorando che la Germania sta seguendo la strada opposta, mentre nel nostro paese, ormai da almeno un decennio, è in corso una preoccupante sostituzione fra manifattura e centri commerciali. Il tutto fingendo di dimenticarsi che la fondamentale differenza che esiste fra produrre le cose e limitarsi a venderle prima o poi presenterà il conto da pagare. E forse ha già iniziato a farlo.
Quello che viene fuori dalla lettura degli articoli di questo folto esercito di folgorati sulla via di Berlino è insomma un modello tedesco à la carte, che finisce per somigliare sinistramente al modello anglo-americano mai veramente dimenticato. La minaccia di delocalizzazione, più che la Bassa Sassonia della Volkswagen, ricorda l’Ohio della desolante deindustrializzazione. Così come l’abbandono della “ottocentesca” manifattura a favore dei “moderni” servizi, più che alle ruggenti fabbriche del Baden Wurttemberg somiglia agli Stati Uniti della Wal Mart.