Adesso finalmente è chiaro che cosa resterà di questo quasi-ventennio dominato dalla figura di Silvio Berlusconi. Resterà quello che abbiamo davanti agli occhi in questi giorni di telefonate d’insulti in diretta tv e di menzogna sistematica: tutta la vanità, soltanto la vanità, nient’altro che la vanità. Dopo la campagna condotta contro Gianfranco Fini, dopo l’indegno spettacolo di giornalisti e fotografi del gruppo a vario titolo sguinzagliati alle calcagna degli oppositori e di chiunque infastidisca il capo, non si possono nutrire altri dubbi. Non si tratta più di stabilire se sia nato prima l’uovo o la gallina, se sia venuto prima l’uso politico della giustizia da parte dei suoi avversari o l’abuso personale della politica da parte di Berlusconi. Dopo il puntuale arrivo alla Farnesina della “documentazione” circa la famosissima casa di Montecarlo con cui da un anno si cerca di distruggere l’immagine del presidente della Camera, nessuno può sostenere in buona fede che la domanda attorno alla quale da quasi vent’anni ruota la politica italiana non abbia trovato risposta. Ormai quella risposta è arrivata. Chiara, univoca e senza margini d’incertezza: l’immoralismo corruttivo e il giustizialismo sudamericano che dal 1994 a oggi si contendono l’egemonia sulla Seconda Repubblica non sono soltanto due facce della stessa medaglia, sono figli dello stesso padre, e quel padre si chiama Silvio Berlusconi.
Per questa ragione, pur condividendo l’aspirazione a una sinistra non forcaiola e non moralista, non ci sentiamo di condividere l’appello a “fermarsi” che Piero Sansonetti e Fabrizio Rondolino rivolgono alla sinistra. Non ci convince la forma, che per i nostri gusti, tra un’invettiva contro “la violenza dello stato” e una denuncia della deriva “bigotta e illiberale” della sinistra, oscilla un po’ troppo tra lo stile di Toni Negri e quello di Niccolò Ghedini. Ma ancora meno ci convince la sostanza, perché non è la sinistra che deve fermarsi, stavolta.
Basta leggere i giornali, guardare la televisione, entrare in un bar. Con le campagne di questi mesi cade anche l’ultima finzione di un centrodestra schierato a difesa delle garanzie costituzionali e della libertà dell’individuo. Violazione della privacy e gogna mediatica, nei confronti degli avversari, sono i suoi strumenti di lavoro abituali. Le campagne di discredito sono il suo pane quotidiano. Il risultato è l’Italia come appare dal tg di Enrico Mentana, che per mettere a confronto “le due campane” sull’argomento del giorno dà sistematicamente la parola a un giornalista di Libero e a uno del Fatto, a un giornalista del Fatto e a uno del Giornale. Maurizio Belpietro contro Marco Travaglio, Marco Travaglio contro Alessandro Sallusti. D’altra parte, non è nemmeno colpa di Mentana se il dibattito politico questo è diventato, se il centrodestra è stato egemonizzato dal leghismo e il centrosinistra dal dipietrismo, indipendentemente dalle fortune elettorali della Lega e dell’Italia dei valori. Ecco il frutto della “rivoluzione liberale” compiuta dal Cavaliere in questi diciassette anni. E siccome leghismo e dipietrismo c’erano già entrambi prima che lui arrivasse (Antonio Di Pietro non era ancora sceso in politica, ma il dipietrismo c’era eccome), se ne può serenamente concludere che il quasi-ventennio berlusconiano non lascia eredità politica alcuna.