Dopo la grande crisi economica, persino sui giornali italiani si era tornati a parlare di manifattura e di fabbriche, e in tempi più recenti addirittura di operai. Lentamente, il primato della finanza, dei servizi e della comunicazione sulla produzione materiale dei beni era stato rimesso in discussione. E nel dibattito pubblico, come risvegliandosi da un lungo sonno, erano tornati la politica industriale, il conflitto distributivo, le condizioni di lavoro e i diritti dei lavoratori. A rompere definitivamente l’incantesimo dell’irenismo globalista che ha segnato la politica e la cultura occidentale dagli anni Novanta a oggi, pensandoci bene, soltanto una cosa mancava ancora all’appello: la rivoluzione. E’ arrivata. E da dove meno ce l’aspettavamo: da quel continente africano che ci eravamo abituati a considerare ai margini della storia, unica area del mondo, credevamo, immune alla stessa globalizzazione. Il mosaico che compone questo passaggio d’epoca è certo ancora incompleto, ma oggi è anche, almeno in parte, decifrabile. L’ondata di rivolte che è partita dalla “Rivoluzione dei gelsomini” in Tunisia, che oggi fa tremare l’Egitto e domani minaccia di gettare nel panico le élite di governo dell’intera regione, ne è solamente l’ultimo tassello. Ultimo in ordine cronologico, s’intende, perché la sua forza evocativa va al di là del Medio Oriente, e anche al di là della politica.
Altri stabiliranno se sia più esatto parlare di un ’68 o di un ’89 arabo, se e quanto siano fondati i timori di un esito iraniano delle rivolte egiziana e tunisina, se gli Stati Uniti di Barack Obama abbiano fatto abbastanza, troppo o troppo poco. Una cosa però è sicura. Per oltre mezzo secolo la politica estera italiana è stata segnata dalla nostra collocazione lungo la frontiera Nord-Sud del Meditterraneo tanto quanto lo è stata dalla nostra collocazione lungo la frontiera Est-Ovest dell’Europa. Di conseguenza, pochi avvenimenti possono essere definiti sensibili per la politica, la sicurezza e l’interesse nazionale più di quelli che stanno scuotendo oggi Tunisia ed Egitto. Per rendersene conto, basterebbe pensare a cosa è accaduto in Italia dopo la caduta del Muro di Berlino. Le similitudini con la situazione attuale certo non mancano.
Di sicuro, in un momento come questo, l’immagine del nostro ministro degli Esteri che prende solennemente la parola in Parlamento, per riferire circa i documenti ottenuti da Saint Lucia sulla famosa casa di Montecarlo, lascia semplicemente attoniti. Non parliamo delle molte altre immagini che si potrebbero evocare, a testimonianza di quanto il governo italiano sia semplicemente troppo preso da altre vicende, per occuparsi dell’Italia e di quello che le accade intorno, in quel mondo grande e terribile che ha improvvisamente ricominciato a muoversi. Immagini che non evochiamo perché non ce n’è alcun bisogno. Saranno fin troppo presenti alla mente di tutti gli italiani, quando occorrerà prendere misure drastiche per rispondere agli impegni di risanamento richiesti dall’Europa, e anche il Vecchio Continente riprenderà a tremare, come ha tremato in Grecia. Inutile farsi illusioni, lo sciame sismico della grande crisi è destinato a scuotere le nostre certezze ancora a lungo. L’Europa certamente non è il Maghreb, ma le scosse sono appena cominciate.
La conseguenza è che al nostro spensierato presidente del Consiglio si porrà presto un problema politico-simbolico non da poco. Nel momento più grave, nell’ora delle scelte più impopolari e dolorose, al capo del governo italiano sarà richesto innanzi tutto questo: gravità. Qualcosa che Silvio Berlusconi, con tutte le sue abilità e le sue risorse comunicative, nella sua incontenibile e multiforme leggerezza, non potrà più nemmeno simulare.
D’altra parte, un problema simile si porrà anche all’opposizione: al suo principale partito, il Partito democratico, e al suo leader, Pier Luigi Bersani. La prima prova generale della nuova epoca, andata in scena attorno alla Fiat e alle scelte di Sergio Marchionne, non si può dire che sia stata brillantemente superata. Quanto alla disperata amarcord di tutti i luoghi comuni liberisti messi in mostra al Lingotto, tra vari altri reperti di archeologia politica in stile Tony Blair, faceva lo stesso effetto che farebbe a un ragazzo di oggi ricevere in regalo un mangianastri. Ognuno ha i suoi gusti, per carità. Resta il fatto che trovare cassette in commercio è diventato piuttosto complicato.