Non contento di aver riempito intere pagine di analisi e previsioni sulla crisi che hanno fatto la fortuna degli sciocchezzari neoliberisti di mezzo mondo, Alberto Alesina è tornato alla carica sul Sole 24 Ore di ieri con i suoi vecchi cavalli di battaglia, peraltro già ampiamente trattati nel discusso libro scritto a quattro mani con Andrea Ichino: conflitto generazionale, modello universitario e meritocrazia. La tecnica è sempre la stessa. Consiste nella sistematica e deliberata trasformazione delle opinioni in fatti, o addirittura in “verità”, che tuttavia, in un inconsueto atto di umità, sono ancora scritte con la minuscola. In compenso, va da sé, sono sempre “scomode” (il che è anche vero, purché sia chiaro per chi).
I temi sono di sicura presa sul lettore medio italiano. Precariato, formazione e fuga dei cervelli sono argomenti che riempiono i giornali. La trattazione non è molto approfondita, ma le conclusioni sono presentate sempre come granitiche certezze: la precarietà dei giovani è dovuta al posto fisso dei padri. La fuga dei cervelli dipende dalla mancanza di meritocrazia. Il gran numero di fuori corso dipende dal fatto che l’università non costa abbastanza agli studenti. Semplice, no?
Eppure, a guardare i dati, non le opinioni, è difficile capire di quale paese parli Alesina. Non solo per la spaventosa quantità di aziende che chiudono i battenti mettendo sulla strada tanti padri di famiglia assunti con contratto a tempo indeterminato. La vicenda Fiat degli ultimi mesi ci racconta anche la storia di un’azienda fra le più grandi del paese che pone ai propri lavoratori – sempre quei padri che Alesina descrive come ipergarantiti e inamovibili – la scelta tra un drastico peggioramento della loro condizione e la pura e semplice perdita del posto di lavoro. L’opinione pubblica ha scoperto così che quei lavoratori, seppure con un posto fisso, non erano poi tanto garantiti. Alla prima minaccia si sono dovuti adattare a condizioni di lavoro peggiori, in cambio di un reddito e di un futuro comunque incerti. Padri e figli, in questo, sono accomunati dallo stesso destino. Una situazione che ai giovani appare però ancora più insostenibile, per la consapevolezza di essere l’anello debole della catena. E non per l’egoismo dei padri, ma per l’errata convinzione, diffusasi nelle nostre classi dirigenti ormai oltre dieci anni fa, che il problema della disoccupazione giovanile fosse di natura contrattuale e non economica, e che per risolverla fosse necessario ridurre la stabilità del lavoro, fornendo alle imprese un vasto ventaglio di forme di assunzione atipiche. Un errore in cui Alesina sembra ricadere ancora oggi, incurante dei guasti sociali ed economici che questo sistema ha già provocato e che ormai fanno parlare quasi tutti i commentatori di “generazione perduta”.
Non meno singolare è la “verità” sul gran numero dei fuori corso che dipenderebbe dal fatto che l’università, accidentaccio, “la pagano in larga parte i contribuenti, quindi agli utenti costa ben poco”. Dunque “ritardare la laurea prolunga un periodo di vita assai piacevole, ed è a costo pressoché zero per l’utente” (e qui si vede subito, tralasciando altre considerazioni, la capacità di empatia del professore di razza). Insomma, secondo Alesina, che cita in proposito una ricerca effettuata sugli studenti della Bocconi, “quando le rette universitarie vengono pagate dal contribuente, gli incentivi degli studenti si annacquano assai”. Questo orribile principio, però, non è applicato solo in Italia e nella vecchia Europa, ma anche in tutte le grandi università americane, dove i cittadini residenti possono ottenere un ottimo servizio a una frazione del suo costo. L’esempio classico è l’Università di Berkeley, finanziata solo per il 13 per cento dai contributi delle famiglie degli studenti che la frequentano, mentre i contribuenti pagano circa il 60 per cento dei costi. Non si tratta di un caso isolato: complessivamente le università pubbliche e private degli Stati Uniti sono finanziate dalle tasse di iscrizione per il 20 per cento dei loro costi. Insomma, il paese in cui i costi dell’istruzione universitaria sono pagati dalle famiglie e non dai contribuenti non esiste, se non nella fervida immaginazione del professor Alesina. La stessa immaginazione che lo porta a considerare i giovani italiani – gli stessi che nella prima “verità” erano ingiustamente frenati nella loro incontenibile creatività dai privilegi dei padri – come degli inguaribili scansafatiche, che passano le estati sdraiati sotto il sole invece che a cercarsi un lavoro come i loro ben più meritevoli omologhi americani.
In breve, con il passare del tempo si fa sempre più forte l’impressione che nelle periodiche uscite sulla stampa e in tv di questo ridotto ma influente gruppo di professori che chiamiamo liberisti, e dei quali Alesina è senza dubbio uno dei più autorevoli, non ci sia nessun metodo. La loro attenzione sembra concentrarsi più sull’efficacia retorica dell’argomentazione che sul suo fondamento analitico. In altre parole, non fanno economia, fanno politica. Il che è naturalmente più che legittimo, ci mancherebbe. Basta saperlo.