La manifestazione in difesa della dignità della donna organizzata domenica a Roma e in tante altre città italiane avrebbe potuto essere, come molti prevedevano e come noi stessi temevamo, minoritaria e faziosa, ipocrita e strumentale, farisaica e rabbiosa. In parole più semplici: piccola e triste. È stata, invece, grande e festosa, ma soprattutto popolare, cioè l’esatto contrario di quel raduno “radical chic” di cui ha parlato Maria Stella Gelmini, in una classica dichiarazione “a prescindere”. Una dichiarazione che svela quale fosse l’auspicio della maggioranza, così disperatamente bisognosa di avversari di comodo da arrivare a costruirseli da sé, quando la realtà non gliene fornisca a sufficienza.
Come ha notato Claudio Sardo sul Messaggero, la manifestazione di domenica è stata invece molto diversa dalle manifestazioni della cosiddetta “società civile” che abbiamo visto in questi anni, dai girotondi di Nanni Moretti al Popolo Viola di Facebook. In questi casi, infatti, la protesta contro Silvio Berlusconi assumeva spesso toni esasperati ed estremi, che finivano per restringerne la portata e a volte persino per fornire argomenti ai suoi bersagli polemici. A quegli attacchi, inoltre, seguivano inesorabilmente le contumelie nei confronti dei dirigenti dell’opposizione, in quanto complici del regime, conniventi con il tiranno o semplicemente incapaci di rovesciarlo. A parte ogni altra considerazione di merito, è evidente che questa deriva finiva inevitabilmente per rendere la protesta sterile, se non controproducente (perlomeno rispetto al fine dichiarato, e cioè contrastare il centrodestra berlusconiano, non giovargli). Qui sta la differenza principale con il movimento che si è presentato domenica in piazza, che era invece il più largo e unitario che fosse possibile immaginare, che vedeva assieme senza complessi esponenti della sinistra e di Futuro e libertà, fianco a fianco in quella che potremmo considerare come la prima manifestazione di una possibile Alleanza costituzionale. Non la manifestazione dei suoi partiti, che il corteo di domenica, com’era giusto e naturale che fosse, non hanno né pensato né guidato, ma del suo popolo. Un popolo che a Roma si è riconosciuto soprattutto negli interventi del segretario della Cgil, Susanna Camusso, e di suor Eugenia Bonetti (e poi dicono che il Pd è un progetto senza futuro).
Com’era prevedibile, non tutti hanno gradito la novità. E se dall’indomani i giornali di destra si sono dedicati all’antico sport di andare a pescare i cartelli più truci e gli slogan più fessi, altri non hanno mancato di accusare gli organizzatori di non aver saputo o voluto infiammare la platea, per troppa “educazione” o per scarsa arte oratoria. Il premio per il titolo più surreale va però all’articolo di Beppe Severgnini sul Corriere della sera: “Ancora slogan? Provate a sorprenderci”. La prossima volta bisognerà esprimersi a gesti, o protestare attraverso disegnini, chi lo sa.
Noi, da quelle piazze, siamo rimasti sorpresi non poco. Dall’enorme affluenza di donne e di uomini di tutte le età che le ha riempite, e su cui non avremmo scommesso un centesimo, ma soprattutto dal messaggio che ne è venuto. Non è stata, questa volta, la manifestazione di una minoranza orgogliosa della propria diversità, ma la manifestazione di una maggioranza stanca della propria acquiescenza. Non è stato un raduno di reduci, quel ritrovo di radical chic male arricchiti che sognava il centrodestra, per poterlo più facilmente esorcizzare, ma una grande manifestazione popolare. La risposta migliore, perché allegra e definitiva, anche per quel gruppetto di esagitati che ha preso il sopravvento nel Pdl, nei salotti televisivi e sui giornali di centrodestra in questi ultimi mesi, e con tanta più foga in questi ultimi giorni. La risposta che meritava un presidente del Consiglio capace di tutto, dalla lusinga parlamentare all’intimidazione mediatica, pur di tenere artificialmente insieme una maggioranza che non è più tale, né in Parlamento né nel paese. Un presidente del Consiglio che mostra gli artigli a oppositori e alleati, ma già sente che a sfuggirgli, questa volta, è l’Italia.