Il Partito democratico ha il diritto di spaccarsi sull’interpretazione del magistero sociale recente della chiesa cattolica? A mio modesto avviso, no. Un esordio così tranchant confligge con l’umile intento di queste poche righe, che non possono dar conto del lungo e articolato dibattito interno al Pd, che ha visto nelle ultime settimane interventi complessi e raffinati, pubblicati su Europa, su Left Wing e su landino.it (tra gli altri) da Stefano Ceccanti, Massimo D’Antoni e Giorgio Armillei.
Salto qui a piè pari le discussioni su fallibilità e infallibilità del magistero sociale cattolico, così come gli accenni a quanti tentano di suscitare energie contro il Magistero (maiuscolo) della chiesa: il magistero sociale cattolico sta male già da solo, senza bisogno di aiuti, in una crisi di crescita dovuta al passaggio epocale da una chiesa europea ed eurocentrica (quella in cui nacque il magistero sociale) a una chiesa-mondo globalizzata. Ma da storico e teologo cattolico italiano, elettore del Pd ed emigrato negli Stati Uniti, ho letto con sorpresa il tentativo di una parte del partito di appropriarsi di alcuni estratti e alcuni contenuti dell’enciclica sociale di Benedetto XVI Caritas in veritate per farne il codice di Hammurabi di un partito che gli avvocati della “poliarchia” ritengono avviato sulla via dello statalismo, quindi inesorabilmente avversario di una visione liberale di società.
Appropriarsi del magistero sociale della chiesa cattolica per scoprirne l’antistatalismo e utilizzarlo in funzione della dialettica interna al partito è, prima di ogni altra cosa, storicamente ingenuo. Con buona pace di quanti (storici e sociologi, cattolici e non cattolici) hanno fatto del “cattolicesimo sociale” la versione “progressista” del pensiero cattolico, il magistero sociale cattolico nasce a fine Ottocento essenzialmente in funzione antistatalista e ha mantenuto quella impostazione di fondo fino a oggi: con Leone XIII contro lo stato liberale post-Ancien Regime, con Pio XI contro lo stato totalitario nelle sue varie versioni, con Giovanni Paolo II contro lo stato comunista e poi contro lo stato capitalista liberista. Con Benedetto XVI lo scenario cambia, in parte per un fondamentale disinteresse al “politico” da parte di questo papa, in parte per l’esigenza di controbilanciare quanto sulla politica disse a fine anni Sessanta il vero convitato di pietra del pontificato ratzingeriano, ovvero Paolo VI.
Immaginarsi che una delle coordinate fondamentali del pensare del magistero cattolico romano sulla società contemporanea, cioè l’antistatalismo, risponda alle esigenze del Partito democratico significa esporsi al rischio di comprare un articolo destinato a tutt’altre esigenze, nel mercato delle idee (per rimanere in tema). Chi scrive ben poco sa della vita interna del Partito democratico e delle sue anime. Ma dal punto di vista intellettuale l’accusa di statalismo mossa ad alcune posizioni all’interno del Pd è sbagliata perché, all’interno della storia dell’armamentario concettuale del cattolicesimo romano, al negativo dello statalismo non si contrapponeva, in positivo, “liberaldemocrazia” o “società poliarchica”, ma si proponeva obbedienza al magistero della chiesa in materia sociale, di volta in volta declinato in funzione delle possibilità politiche, diplomatiche e culturali delle diverse epoche storiche. Era quel magistero che aveva tollerato il sistema corporativo fascista, preteso dallo stato italiano la restrizione della libertà religiosa per i non cattolici, e che dopo il 25 luglio 1943 aveva chiesto a Badoglio di non abrogare le leggi razziali perché quelle leggi erano in linea con la concezione cattolica del “posto degli ebrei” nella società cristiana. In definitiva, la storia insegna che a seconda delle occasioni ci possono essere buoni motivi per voler recepire o non recepire il magistero sociale della chiesa. Non solo per una questione di laicità, ma perché il magistero sociale della chiesa è uno dei più mutevoli e meno universali, tenta di affermare principi e non di dare soluzioni: basterebbe esaminare un attimo la ricezione dell’enciclica Caritas in veritate qui negli Stati Uniti, dove la teologia “liberal” ha visto in quel documento un’affermazione della necessità di regolamentare il mercato, mentre la teologia conservatrice vi ha visto una benedizione all’economia di mercato e una condanna di ogni intervento dello stato.
Mi auguro che il dibattito interno al Pd non riproduca la stessa dinamica vista in occasione della ricezione dell’enciclica sociale di Benedetto XVI. Anche perché non posso onestamente credere che Stefano Ceccanti si ritrovi sulle stesse posizioni di un reazionario come George Weigel. Ma la polemica antistatalista interna al Pd assume, letta da un italiano negli Stati Uniti, il medesimo colore della polemica americana tra i democratici a favore di una qualche regolazione del mercato e i repubblicani di scuola Tea Party che accusano Obama di socialismo. Letto dall’estero, il risultato finale della tesi ceccantiana finisce per vedere molto più vicino a sé il cattolicesimo sociale di Comunione e Liberazione (quello sì, molto fedele alle radici ideologiche del cattolicesimo sociale di fine Ottocento) che il “Catholic social thought” che rese possibile il New Deal di Franklin Delano Roosevelt (con idee “stataliste”, nate e propagate dalle aule dell’università cattolica in cui insegno – indegno successore quale sono di mons. John A. Ryan).
Ovviamente oggi negli Stati Uniti si richiamano a John Ryan anche i cosiddetti “Reagan Catholics”, quei democratici che a partire dagli anni Ottanta iniziarono a votare repubblicano al grido di “il governo è il problema, non la soluzione”. Ma non a caso il “Catholic social thought” è il grande assente dal dibattito politico-religioso nella chiesa di oggi, sedotto e abbandonato dal reaganismo. A guardare quello che è diventato il Partito repubblicano oggi e la considerazione di cui gode l’idea di stato nell’America di oggi, la polemica anti-statalista è una tendenza che non merita incoraggiare culturalmente e politicamente. Eliminati il governo e lo stato come regolatori accanto al mercato, non è rimasto nulla. Non esiste più un “rapporto poliarchico tra politica, mercato e autorità di regolazione”.
Vista dall’America, la discussione del Pd su statalismo e antistatalismo è una danza macabra sul cadavere dello stato. Per il papa è poco più che una questione “adiaforica”, cioè teologicamente indifferente; ma Sergio Marchionne sa bene qual è la destinazione ultima di quel dibattito (e il suo intervento al Meeting di Rimini di Cl rimane indicativo). Resta da vedere se il Pd vuole avere, della questione del rapporto tra stato, società ed economia, una visione globale paragonabile a quella del capo della Fiat (e possibilmente diversa), o se vuole perdersi a interpretare i commi di un’enciclica sociale firmata dal papa, ma scritta e pensata da chissà chi.