Proviamo a prenderla dall’altra parte: esiste un diritto a non sapere? Ed è possibile che il non sapere rientri tra le condizioni per cui certe relazioni fra gli uomini possano aver luogo? La prima domanda ha una risposta abbastanza certa: è difficile negare che nei casi di adozione, per esempio, si abbia tutto il diritto di non conoscere i genitori naturali. Così come si ha anche il diritto di rimanere nell’ignoranza circa informazioni che possano essere ricavate dal nostro patrimonio genetico, e che quella ignoranza debba poter essere rispettata anche da altri. La seconda domanda ha una risposta non meno evidente, se solo si pensi a qual regime di terrore si stabilirebbe se tutto, ma proprio tutto quel che ci riguarda fosse noto al nostro partner. Oppure se i genitori sapessero tutto, ma proprio tutto dei propri figli, e viceversa.
Usciamo allora di casa: andiamo al supermercato o in ufficio. E di nuovo ci accorgiamo che sarebbe orribile se, sul luogo di lavoro e nelle relazioni sociali, avessimo a che fare con persone che conoscano tutto di noi. C’è infatti una certa fiducia e confidenza fra simili, intrisa per fortuna di cortesi buone maniere, che si fonda precisamente sulla mancanza di intimità, e a cui non si potrebbe rinunciare senza averne in cambio i più profondi sentimenti di odio: reciproco e verso l’intero genere umano. Perché l’uomo, diceva un filosofo, vive nella distanza: avvicinarsi troppo significa perderlo. Compiamo allora un altro passo, e chiediamoci se invece nella sfera pubblica, e per esempio in relazione a chi ci governa – e cioè ci rappresenta, e in virtù di questa rappresentanza direttamente o indirettamente elettiva esercita un potere che ci riguarda, e su cui dobbiamo quindi poter giudicare – è necessario che tutto sia reso noto, perché appunto lo si possa giudicare. Non è abbastanza chiaro, anche in questo caso, che debbono comunque permanere delle zone in cui non si spinge neppure una sana inquisizione democratica? Oppure si ritiene che non c’è colloquio fra autorità dello stato di cui non debba essere reso noto al pubblico lo stenografico? La riservatezza è indispensabile: nelle riunioni di gabinetto, nei processi decisionali, nelle trattative politiche, e in un mucchio di altri momenti essenziali della vita delle istituzioni. Col che si sono impiegate molte parole per dire una sconcertante ovvietà. Siccome però l’ovvietà è andata palesemente a farsi benedire, di fronte al profluvio di rivelazioni messe a disposizione da Wikileaks, forse non è inutile opporla ai partigiani del diritto a sapere a ogni costo – e a sapere tutto e subito, non nei tempi lunghi dell’indagine storiografica, che per aprire archivi impiega decenni, ma con quelli quotidiani della pagina di cronaca, che già annuncia per il giorno successivo un nuovo scottante capitolo di non si sa quale incredibile storia.
Codesti partigiani del sapere sono pure incuranti di un’altra ovvietà, quella che tutti coloro i quali da bimbi hanno giocato al gioco del telefono ricordano perfettamente. Che se io soffio nell’orecchio del mio vicino una qualche parolina, e questi la propala a sua volta al suo vicino, e così via fino all’altro capo della catena, quando l’ultimo la ripeterà ad alta voce si scoprirà che non è più la stessa. E giù risate. Con Wikileaks, invece, non ci sarebbe niente da ridere. Sarebbe tutto dannatamente serio. Ma è perché, si dice, i cablogrammi sono semplici trascrizioni: documenti cartacei, non parole origliate. Vero. Ma è vero pure che, faccia o no il mezzo il messaggio, il contesto di sicuro lo determina e come. E astrarre da esso, ignorare come e dove e perché qualche opinione è stata espressa, mette difficilmente in condizione di comprenderne appieno il senso e la portata.
Ma, se non si ama l’argomento del contesto, ci si tenga almeno a un punto di principio. Se si riconosce che una certa comunicazione ha diritto alla riservatezza, non è possibile che perda questo diritto per il fatto che qualcuno l’ha carpita. Delle due l’una: o si ritiene che i diplomatici debbano dire tutto a tutti, e allora d’accordo, scateniamo pure la pirateria per i mari della Rete, e giochiamo al piccolo hacker; oppure non si può approvare con soddisfazione la diffusione dei dispacci delle ambasciate, e allora smettiamola con questo lubrico ficcanasare nelle carte altrui.
Che poi, in tutto questo propalare e diffondere e divulgare, pare che neppure la ricetta della Coca Cola sia davvero venuta fuori. E allora veramente non si capisce come questo bailamme possa servire ad altri che non siano i propalatori medesimi.