La bolla (speculativa) della meritocrazia

La correlazione tra redditi dei padri e redditi dei figli è aumentata in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, negli anni della globalizzazione, raggiungendo livelli superiori a quelli italiani. Un dato che fa giustizia del luogo comune, che proprio in quegli anni si affermava da noi come verità indiscutibile, secondo cui il modello angloamericano di società sarebbe stato l’unico capace di offrire reali opportunità e di premiare i meritevoli. La conferma arriva da un convegno dell’associazione Alumni dei Cavalieri del Lavoro direttamente dalla bocca di Gianfelice Rocca, vicepresidente di Confindustria per l’“education”. La notizia, in verità, non è affatto nuova: mesi fa sui giornali tedeschi si è sviluppato un interessante dibattito sugli esiti e sull’auspicabilità della cosiddetta Chancengesellschaft (società delle opportunità). Il risultato è che oggi nessun partito – eccettuati solo i liberali della Fdp, che i sondaggi danno piuttosto malconci – ha più il coraggio di parlarne. Un dibattito analogo si è sviluppato in Gran Bretagna, con l’approdo di Ed Miliband alla leadership del Labour e il pensionamento della Terza Via di Tony Blair e Anthony Giddens.
In Italia, invece, siamo ancora a barcamenarci fra gli editoriali di Roger Abravanel e le illuminanti trovate di Matteo Renzi, inframmezzate dai periodici revival dell’ormai celebre discorso del Lingotto di Walter Veltroni (unica eccezione sembra essere stata, fino all’intervento del vicepresidente di Confindustria, il “Processo alla meritocrazia” organizzato in ottobre dai Giovani democratici). Ma i fatti parlano chiaro. Il welfare delle opportunità, l’eguaglianza delle condizioni di partenza, il taglio delle aliquote marginali e l’abolizione dei sussidi, più che spingere alla redistribuzione della ricchezza in base a criteri meritocratici, sembrano aver premiato soprattutto quelli che erano già benestanti di famiglia. A questo non entusiasmante bilancio bisogna inoltre aggiungere che l’indebolimento dei sistemi di sicurezza sociale e di redistribuzione ha finito per generare una polarizzazione della società come mai si era vista da un secolo a questa parte. I frutti della crescita economica dell’ultimo trentennio sono finiti per oltre un terzo nelle mani del 10 per cento della popolazione. La spiegazione, come riconosce lo stesso Rocca, sta principalmente nella rinuncia da parte del mondo anglosassone alla cultura manifatturiera: l’aver privilegiato i servizi e la finanza ha provocato un generale impoverimento della classe media e delle sue capacità di consumo. L’infatuazione per la “società della conoscenza” e le profezie su una imminente “fine del lavoro” hanno prodotto il bel risultato che oggi ogni iPad venduto negli Stati Uniti genera un deficit di 200 dollari nella bilancia commerciale, perché quasi tutte le fasi di produzione si svolgono altrove.
Del resto, la progressiva terziarizzazione dell’economia americana è una delle chiavi di lettura più interessanti – e probabilmente più robuste – per spiegare le esaltanti performance del mercato del lavoro statunitense durante gli anni della presidenza Clinton. Strutture produttive assai diverse nei due lati dell’Atlantico sembrano avere determinato sentieri di crescita e livelli di occupazione molto più di quanto non abbiano fatto le presunte rigidità dei contratti di lavoro e la generosità dei sistemi di welfare, finiti invece sistematicamente sul banco degli imputati. La vecchia Europa ha pagato a caro prezzo l’ostinazione nel voler mantenere la sua vocazione manifatturiera, rifiutando di convertirsi a una economia fondata sui servizi e sulla finanza. La crisi degli ultimi anni ha mostrato però tutte le debolezze di quella scorciatoia, che ha prodotto un boom economico effimero. Speriamo esploda presto anche nel nostro paese la bolla intellettuale che per tanti anni lo ha immeritatamente sorretto.