La manifestazione del 9 aprile, a suo modo, è stata anche un segno dei tempi. Da sempre frammentati, non sindacalizzati, con poca storia alle spalle, questa volta i precari sono stati capaci di sollevare un tema, quello delle loro condizioni di vita, senza giocare di rimessa rispetto all’agenda imposta da media e governo, invertendo le polarità di un’opinione pubblica tanto pronta a scaldarsi sulla giustizia quanto rinunciataria e passiva sulle grandi questioni sociali.
In secondo luogo, questo movimento assume nelle proprie premesse le caratteristiche del lavoro post-taylorista, spesso fortemente autonomo e persino discontinuo, superando l’idea secondo cui per risolvere tutto sarebbe sufficiente l’abrogazione della legge Biagi, vecchia battaglia della sinistra antagonista. Questa volta, invece, il movimento chiede un welfare capace di garantire la continuità del reddito, la decenza della retribuzione e delle pensioni, un mercato del lavoro che non concepisca la flessibilità soltanto come un modo per risparmiare sul costo del lavoro.
In terzo luogo, ed è il fatto più importante, questo movimento si sottrae alla logica per cui i figli si devono rivalere sui padri, e i non garantiti sui garantiti. Per essere più precisi, si ha la sensazione di un rovesciamento esatto di questo schema, di una ricerca di solidarietà e di alleanze che ponga il problema per il verso giusto: i lavori contro le rendite, in un’impostazione che sembra guardare allo sciopero generale convocato dalla Cgil per il 6 maggio. Insomma, viste le premesse, c‘è solo da sperare che questo treno non si fermi e non finisca sul binario morto del giovanilismo lamentoso, della rivendicazione sterile, della mitologia della “narrazione” o della “meritocrazia”.
E questa, sia chiaro, è una sfida che non riguarda solo chi ha promosso “Il nostro tempo è adesso”: chiama in causa il ruolo della sinistra politica e sindacale. Chiama in causa la nostra capacità di smascherare i paladini del conflitto tra generazioni offrendo risposta all’enorme questione sociale che è stata, anche dietro la maschera di quel conflitto, continuamente alimentata.
In fin dei conti, tutto questo ci riporta a Pomigliano e Mirafiori, e alla domanda se si possa chiamare garantito chi, pure con il diritto alla cassa integrazione, guadagna 1300 euro al mese. Ci riporta al fatto che se il diritto alla malattia, a un’organizzazione del lavoro umana, alla contrattazione collettiva delle proprie condizioni di lavoro viene meno, per i precari del 9 aprile resta ben poco in cui sperare. Queste cose qui, giovani e non più giovani scesi in piazza le dicono, in maniera persino troppo garbata. Questo lascia pensare che ci sia lo spazio per lasciarsi alle spalle il berlusconismo.
Misurato il fallimento della coppia populismo/liberismo, qualcosa sta lentamente cambiando nella società italiana, e deve cambiare anche a sinistra, superando la vecchia divisione anni 90 tra una sinistra convinta che i processi di cambiamento si possano avviare solo dall’alto, piegata alle ferree leggi del mercato e alla fine incapace di riforme, e quella che ancora oggi interpreta il suo vecchio minoritarismo in una chiave personalistica e di testimonianza.
Chi era in piazza vuole sapere se avrà mai un sussidio di disoccupazione. Se c‘è qualcuno capace di dire che la maternità è un diritto universale. Se c‘è qualcuno capace di chiedere all’Inps dove vanno a finire i 9 miliardi di euro che frutta la gestione separata e come verranno distribuiti, dato che le pensioni minime, minime restano. Vuole sapere, insomma, se sarà mai messo in condizione di accedere all’età adulta.
Tutto questo è forse la base di una nuova capacità del lavoro di dare corpo e anima alla sinistra, forse questa cosa nuova può stare al Partito democratico come la Federazione dei lavoratori metalmeccanici stava ai partiti popolari della Prima Repubblica. In altre parole, può ristabilire il primato del lavoro e del suo avanzamento come leva di eguaglianza e libertà. Per tutti.