L’abilità di chi ha promosso i referendum sull’acqua è stata quella di far passare il messaggio, semplice e diretto, che in gioco fosse la proprietà pubblica o privata di una risorsa essenziale. È forse inevitabile che in questo tipo di consultazioni vi sia una corrispondenza limitata tra l’affermazione di principio e il dato tecnico del quesito. Da qui i chiarimenti, le precisazioni, i distinguo (e la frustrazione) dei commentatori più attenti e preparati, che cercano di spiegare come in realtà l’approvazione del referendum comporti effetti diversi da quelli dichiarati e da quelli presunti dalla maggior parte degli elettori.
Nel caso dell’acqua, si ha un bel daffare a spiegare che l’acqua come risorsa è pubblica e tale resterebbe con o senza il referendum, così come pubblica è e resterebbe l’infrastruttura. Ciò che è in gioco è semmai la gestione del servizio, che secondo la legge vigente può essere affidato a un soggetto pubblico o privato. A ben vedere, la norma che il primo dei due referendum vorrebbe abrogare (il cosiddetto decreto Ronchi) non riguarda nemmeno l’obbligo o la facoltà di ricorrere a un privato, bensì una cosa più specifica: se gli enti locali debbano essere obbligati o meno ad affidare la gestione del servizio mediante gara. Resta inteso che a detta gara continuerebbero a poter partecipare soggetti sia pubblici che privati; dunque anche nell’ipotesi in cui il referendum fosse sconfitto continuerebbero a esserci molte gestioni pubbliche, con la sola rilevante differenza che esse dovrebbero ottenere l’affidamento del servizio confrontandosi con i potenziali concorrenti, e quindi dimostrando la loro superiore efficienza. Insomma, così afferma chi avversa il referendum, ben venga la gara se contribuisce a garantire la sopravvivenza delle sole gestioni efficienti, pubbliche o private che siano.
C‘è però una ragione per sostenere il referendum che prescinde dalla nostra convinzione rispetto all’efficacia o meno della gara e della concorrenza per garantire l’efficienza, e della nostra preferenza per una gestione pubblica o privata. Il decreto Ronchi obbliga l’indizione delle gare in tempi ravvicinati in un settore, quello idrico, ancora caratterizzato da un quadro di regole indefinite e dall’assenza di un’autorità di regolamentazione che possa fare da contraltare ai gestori. Chi sostiene la necessità di celebrare comunque le gare parte dalla convinzione che sia prioritario introdurre elementi concorrenziali e che possa essere rimandato il momento della definizione delle regole. In realtà, l’esperienza recente (basti citare il caso delle autostrade) ha mostrato che la privatizzazione di settori monopolistici senza una chiara definizione del quadro regolatorio può facilmente risolversi nella creazione di posizioni di rendita a spese di utenti e contribuenti. Anche chi ha a cuore la liberalizzazione nel settore idrico dovrebbe dunque difendere il principio “prima la regolazione, poi la gara” e sostenere, seppure con motivazioni diverse da quelle dei promotori, il sì al primo dei due referendum.
Il secondo referendum riguarda un altro aspetto, cioè la determinazione della tariffa. L’eventuale prevalenza del sì impedirebbe l’inclusione del costo del capitale nella tariffa idrica. La motivazione spesso addotta dai referendari è che in questo modo nessuno potrà trarre profitto dal servizio. Va tuttavia chiarito che la remunerazione per l’impiego di capitale è qualcosa che prescinde dal coinvolgimento dei privati: dovendo effettuare investimenti, a meno che non si abbia in mente di finanziarsi con le imposte correnti, sarà necessario attrarre capitali e questo è possibile solo promettendo una remunerazione pari a quella che quei capitali otterrebbero in qualsiasi altro impiego economico alternativo. La necessità di remunerare il capitale è cioè una conseguenza non già del coinvolgimento dei privati, ma della necessità di ricorrere al risparmio per finanziare investimenti a lungo termine. È preferibile per diverse ragioni (tra le altre: la responsabilizzazione dei gestori, una migliore programmazione, la corrispondenza tra chi beneficia del servizio e chi ne sostiene il costo) che a finanziare gli investimenti siano gli utenti del servizio attraverso la bolletta piuttosto che la collettività nel suo insieme tramite le imposte.
Non è peraltro difficile prevedere che, nel caso di una vittoria dei sì e quindi della necessità di finanziare gli investimenti tramite bilancio pubblico, i vincoli all’indebitamento degli enti locali e la necessità di dare priorità ad altre voci di spesa (l’assistenza, la sanità, l’istruzione) determinerebbero il rinvio degli investimenti nel settore idrico a un futuro indefinito. Un sì al referendum rischierebbe dunque di andare ben oltre l’intento di rendere l’acqua un investimento non profittevole per i privati, ottenendo l’effetto indesiderato di bloccare ogni realistica prospettiva di ammodernamento della rete. È il caso di dire che si getta il bambino con l’acqua sporca.
Ci sono dunque, per chi vuole sottrarsi alla contrapposizione astratta e ahimé fuorviante tra acqua pubblica e acqua privata e guardare al merito dei quesiti, buone ragioni per votare sì al primo referendum e no al secondo. In particolare, credo che dovrebbe votare sì al primo referendum anche chi ritiene che la migliore garanzia di una gestione efficiente sia l’affidamento tramite gara entro un quadro regolatorio certo e definito; e dovrebbe votare no al secondo referendum anche chi, avendo a cuore la tutela della risorsa idrica, ritiene che la responsabilità di programmare e realizzare gli investimenti debba essere lasciata a un soggetto pubblico.