Un milione di dollari di cauzione più cinque di garanzie collaterali, arresti domiciliari con braccialetto elettronico, vigilanza 24 ore su 24 e deposito dei documenti validi per l’espatrio sembravano non bastare al gran giurì per il rilascio su cauzione di Dominique Strauss-Kahn. I rischi di fuga dell’accusato, ravvisati soltanto tre giorni prima dal giudice di New York, sono però improvvisamente scomparsi giovedì quando DSK, con una lettera di poche righe, ha rimesso il mandato di direttore generale del Fondo monetario internazionale. Di fronte a una tale sequenza di eventi, anche a coloro che non hanno dato molto peso alle teorie complottiste che da giorni stanno facendo la fortuna di giornali e siti internet è sembrato che la vera preoccupazione delle autorità americane non fosse in realtà il pericolo di fuga dell’indagato, ma piuttosto il rischio che scegliesse di restare alla guida del Fmi.
Strauss-Kahn era una persona indubbiamente invisa a molti. Lo era in Francia, sia per i gollisti, che ormai da mesi vivevano con l’incubo di ritrovarselo come competitore alle presidenziali dell’anno prossimo, sia per i dirigenti socialisti, che non lo avevano mai amato particolarmente (alcuni, forse, anche per la sua estraneità a quello stile parolaio e inconcludente così diffuso nella sinistra transalpina). Ma Strauss-Kahn non era ben visto neanche dall’establishment politico ed economico mondiale. Molti commentatori, dopo lo scandalo che lo ha visto protagonista pochi giorni fa, hanno denunciato il danno di immagine che il Fmi avrebbe subito. In pochi, invece, hanno ricordato come era ridotto il Fmi prima dell’arrivo di DSK. Agli scandali che avevano colpito molti suoi funzionari, accusati di intrattenere stretti legami d’affari con i grandi gruppi economici americani, si sommava la gestione della transizione delle economie dell’ex-blocco sovietico e della crisi finanziaria internazionale di fine anni Novanta, talmente reprensibile da suscitare non solo l’indignazione dei paesi ai quali il Fmi dettò le sue politiche, ma anche una enorme crisi di credibilità che sfociò in numerose pubblicazioni assai critiche.
A pesare sul Fmi non erano tuttavia solo scandali e politiche sbagliate, ma anche l’incapacità di adattarsi a un mondo che, venuti meno gli accordi di Bretton Woods, era profondamente cambiato. Il vertiginoso aumento del prezzo delle materie prime e la crescita senza limiti delle transazioni finanziarie internazionali private avevano messo seriamente in crisi il ruolo di una istituzione come il Fondo monetario, nata quando i rapporti internazionali erano qualcosa che riguardava solo gli stati, le transazioni finanziarie private erano strettamente controllate dai governi e l’unica strada che i paesi in deficit avevano per riequilibrare i propri conti era quella di prendere a prestito risorse finanziarie pubbliche, come quelle disponibili presso il Fmi. Quando Strauss-Kahn arrivò alla guida del Fondo l’obiettivo principale era dargli una nuova missione. Non si trattava solo di rivedere radicalmente il personale e la dotazione finanziaria ormai insufficiente, ma soprattutto di adattare l’istituzione ad un mondo profondamente cambiato. Appena insediato, DSK ha preso subito posizione a favore dei paesi emergenti nella infinita diatriba relativa alla governance del Fondo – per anni vincolato nelle sue azioni dal potere di veto degli Stati Uniti e dell’Europa – cercando di spingere con forza nella direzione di una maggiore democraticità. La crisi economica iniziata nell’estate del 2007 ha poi permesso a Strauss-Kahn di denunciare i pericoli derivanti dalla dipendenza del sistema monetario internazionale dalle politiche e dalle condizioni di un singolo paese dominante, mettendo così seriamente in discussione la pluridecennale egemonia del dollaro. In molti ricorderanno la reazione stizzita del segretario al Tesoro americano, Timothy Geithner, di fronte alla proposta di DSK di esplorare la possibilità di creare una valuta di riserva internazionale facendo ricorso ai “diritti speciali di prelievo” (una moneta sovranazionale varata dal Fmi nel 1969 come unità di conto) e modificando il paniere su cui essi sono calcolati, includendo anche lo Yuan cinese.
Ma Strauss-Kahn si era fatto dei nemici anche in Europa. La sua presenza costante nella gestione della crisi greca ha infastidito non poco i paesi forti della Ue, che a lungo, per diverse ragioni, hanno cercato di tenere il Fmi fuori dalla partita. Strauss-Kahn è stato il primo ad accettare, già alla fine del 2009, la richiesta di aiuto da parte di Atene, molto prima della decisione europea di istituire un meccanismo di salvataggio, emersa solamente dopo estenuanti negoziati con la Germania. Così come fu uno dei pochi, all’inizio del 2010, a capire che l’unica via d’uscita percorribile sarebbe consistita in una parziale ristrutturazione del debito pubblico greco, sotto forma di un suo riscadenzamento che ne avrebbe diminuito sensibilmente il costo. Una opzione bocciata dalla feroce opposizione di Germania e Inghilterra, che però in queste settimane è stata ormai fatta propria più o meno ufficialmente da tutti, ma solo dopo aver scoperto che i tagli draconiani alla spesa sociale e la vendita di quel che restava dell’industria pubblica nazionale non solo non avevano minimamente migliorato la sostenibilità intertemporale del debito ellenico, ma avevano anche messo in ginocchio economicamente e socialmente l’intero paese.
A infastidire molti addetti ai lavori, però, era stata soprattutto la svolta culturale che Strauss-Kahn stava imprimendo al Fmi. Dopo decenni di autentica dittatura intellettuale del cosiddetto Washington consensus, DSK aveva seriamente messo in dubbio – anche in quello che era stato il tempio del liberismo – l’assunto che i mercati liberi e senza limiti fossero efficienti e stabili. Nelle ultime settimane del suo mandato Strauss-Kahn aveva più volte ribadito la necessità di un radicale cambiamento di rotta nelle politiche del Fmi. Il discorso pronunciato alla Brooking Institution di Washington (che riportiamo qui) rappresenta una sorta di testamento politico del pensiero di DSK: uguaglianza e buona occupazione come elementi basilari per la prosperità economica e la stabilità politica. Obiettivi da raggiungere attraverso una maggiore regolamentazione statale dei mercati finanziari e del lavoro, il rafforzamento della contrattazione collettiva e una maggiore progressività delle imposte. Ma un simile tentativo – il tentativo cioè di ridare cittadinanza a John Maynard Keynes in quel Fondo monetario che era stato la sua creatura – forse era davvero troppo per un establishment finanziario mondiale tremendamente desideroso di ritornare al business as usual.