Salvo clamorose svolte dell’ultimo minuto, Mario Draghi sarà il prossimo governatore della Banca centrale europea. Una scelta che nel nostro paese è stata accompagnata da commenti entusiastici. Francesco Giavazzi, sul Corriere della Sera, mette tra i meriti di Draghi anche quello di aver contribuito, con un’attenta opera di vigilanza, a tenere le nostre banche fuori dalla crisi.
Non c’è dubbio che l’Italia abbia avuto meno difficoltà di altri grandi paesi europei. Ma questo non dipende tanto dalle scelte di Draghi o dalla disponibilità al rifinanziamento mostrata da Giulio Tremonti, quanto dal fatto che le banche italiane già disponevano di un fondo di garanzia assai vantaggioso per i propri clienti. E dipende anche dal fatto che negli anni precedenti, durante il governatorato di Antonio Fazio, in controtendenza con lo spirito del tempo, si cercò di frenare l’eccessiva penetrazione di banche straniere in Italia, riducendone non solo l’influenza ma anche il potenziale effetto di contagio, che la crisi ha dimostrato essere estremamente pericoloso. Tale scelta, ripetutamente stigmatizzata da parte di economisti, opinionisti e grandi imprenditori, fu portata avanti con tenacia, nonostante un processo di privatizzazione bancaria frettoloso e fin troppo esteso avesse richiesto di sostituire, almeno in parte, il latitante o insufficiente capitale italiano mediante il ricorso alla proprietà straniera. Del resto, le accuse di una “medievale” difesa dell’italianità delle banche, proseguite con crescente intensità fino alle dimissioni di Fazio nel dicembre del 2005, erano chiaramenre pretestuose. Gli stessi documenti della Banca d’Italia (si vedano le considerazioni finali del governatore, il 31 maggio 2005) mostravano come le autorità italiane avessero autorizzato istituzioni finanziarie estere ad acquisire il 16 per cento della proprietà dei primi quattro gruppi bancari nazionali, un valore assai maggiore di quello rilevato per le realtà bancarie degli altri paesi europei. Probabilmente il problema non era il “quanto” o il “come”, ma il “chi”. In ogni caso, a oggi, nessuno si è ancora sentito in dovere di rivedere le proprie posizioni e il nome del governatore Fazio appare sulla stampa unicamente nelle pagine di cronaca giudiziaria. Ma il passato è passato. E adesso bisogna pensare al futuro.
Sulla scelta del nuovo governatore della Banca d’Italia, per esempio, Giavazzi si pronuncia a favore della soluzione interna. Posizione condivisibile, ma sostenuta con argomenti assai discutibili. Già il lessico del professore bocconiano la dice lunga sulla sua visione delle istituzioni (“Una scelta esterna esporrebbe la Banca d’Italia al mercato della politica”). Una posizione ideologica che lo porta a forzare notevolmente la stessa ricostruzione storico-biografica dei predecessori (“I presidenti del Consiglio, in quarant’anni, non hanno mai dovuto ricorrere a persone esterne”). Due fra i più apprezzati governatori della Banca d’Italia ebbero, prima di assumerne la guida, importanti incarichi politici, senza che questo compromettesse minimamente il loro operato. Guido Carli, che guidò l’istituzione di via Nazionale dal 1960 al 1975 dopo un brevissimo periodo di direzione generale, fu ad esempio ministro del commercio estero nel governo Zoli. E Luigi Einaudi, governatore dal 1945 al 1948, non solo fu contemporaneamente membro dell’Assemblea costituente, ma cumulò addirittura la carica in Banca d’Italia con quella di ministro del Tesoro, delle Finanze, del Bilancio e pure vicepresidente del Consiglio. Nessuno – tantomeno Giavazzi – si è mai permesso di mettere in discussione l’integrità morale e la straordinaria abilità con cui Einaudi ha svolto i suoi compiti (comunque la si pensi sul merito delle sue scelte di politica economica).
Colpisce invece l’indulgenza, alla luce dei criteri da lui enunciati, con cui Giavazzi giudica la nomina al vertice della Banca d’Italia di Mario Draghi, uomo con una lunga carriera prima come membro dei consigli di amministrazione di importanti banche italiane (Banca nazionale del lavoro, Istituto mobiliare italiano), poi come direttore generale del ministero del Tesoro e infine come vicepresidente e membro del management Committee Worldwide della Goldman Sachs, una delle più grandi banche d’affari private del mondo.
Non si capisce davvero perché mai un “vigilato” diventato improvvisamente “vigilante” possa così ben operare – come sottolinea lo stesso Giavazzi – mentre chiunque altro, una volta diventato governatore, dovrebbe subire pressioni e condizionamenti dalla politica (nella visione giavazziana, si sa, non esistono pressioni da parte del settore privato). Viene davvero il dubbio che, anche in questo caso, il problema non sia il “come”, ma il “chi”. Così però si fa un torto non solo alla Banca d’Italia e ai suoi attuali dirigenti, ma anche all’opinione pubblica, costretta per l’ennesima volta ad assistere a una lotta di potere mascherata da dibattito su meriti e competenze.