Silvio Berlusconi voleva trasformare il voto amministrativo in un referendum sulla sua leadership e ci è riuscito. Quel referendum, però, lo ha perso. Allo stesso tempo, dentro e fuori i partiti di opposizione, in molti volevano trasformare l’ultima tornata elettorale in un referendum sulla leadership di Pier Luigi Bersani, per prenderne il posto o per sostituirlo con altri. Pure loro ci sono riusciti. E pure loro hanno perso.
Adesso tocca ai referendum propriamente detti: i due questiti sull’acqua, quello sul nucleare e quello sul legittimo impedimento. Ma il Partito democratico, che lunedì riunirà la sua direzione, arriva all’appuntamento insieme troppo tardi e troppo presto. Troppo tardi per assumere la guida del movimento referendario senza subire le prevedibili accuse di opportunismo; troppo presto per investire nella campagna i frutti della recente vittoria, che in tanti nemmeno gli riconoscono.
Strano destino, quello del Pd. Quando nel 2008 perde le elezioni con dieci punti di distacco dal centrodestra, che conquista la più grande maggioranza di sempre e butta fuori dal parlamento l’intera sinistra radicale, tutti gridano che quel risultato è in realtà una grande, insperata vittoria. Oggi che per la prima volta, a quattro anni dalla sua fondazione, vince finalmente una tornata elettorale, conquistando persino il comune di Milano, tutti corrono a spiegarci che quel risultato è in realtà un mezzo fiasco, perché l’anno scorso a Milano il Pd aveva perso le primarie.
Adesso, però, Bersani dovrebbe riflettere bene. Per quanto riguarda i due referendum sull’acqua, Massimo D’Antoni ha già spiegato qui le ragioni tecniche, di merito, per cui sarebbe saggio votare sì al primo e no al secondo quesito. La questione è relativamente semplice: negando la possibilità di una remunerazione del capitale, come chiede il secondo quesito sull’acqua, si impedirà di fatto ogni investimento nel settore, ogni pur necessario intervento che non sia finanziato attraverso nuove imposte o nuovo debito (quindi, verosimilmente, ogni intervento). La necessità di remunerare il capitale è cioè una conseguenza non già del coinvolgimento dei privati, ma della necessità di ricorrere al risparmio per finanziare investimenti a lungo termine. Così, nel merito, Massimo D’Antoni. Ai suoi argomenti se ne possono aggiungere però almeno altri cinque.
La prima ragione per cui sarebbe naturale attendersi che il Pd si battesse per il no al secondo quesito sull’acqua è che la norma che si vorrebbe abrogare è stata varata dal governo Prodi, con Bersani ministro. La seconda ragione è che proprio Bersani si è a lungo fortemente caratterizzato come il ministro delle liberalizzazioni. La terza è che su entrambi questi aspetti è già partita un’insidiosa campagna, da destra e da sinistra, che mira a colpire la credibilità di Bersani e del Pd. Bersani e il Pd avrebbero dunque tutto l’interesse a compiere una scelta non meno netta nel merito – una scelta che confermi cioè la preferenza per un governo pubblico dell’acqua entro un quadro regolatorio definito – ma più equilibrata e differenziata sul piano della sua concreta traduzione tecnica.
La quarta ragione politica che consiglierebbe una simile indicazione elettorale sta nell’essenza stessa della sfida che al Pd e alla leadership di Bersani vengono dalle cosiddette forze radicali, e cioè da quel confuso magma che va da Beppe Grillo a Nichi Vendola, passando per l’Italia dei valori e per i movimenti che hanno promosso i referendum. Qui bisogna fare grande attenzione, perché la richiesta di fondo, la domanda che sale dal basso, alimentando in superficie questo multiforme e spesso effimero ribollire di movimenti, leader e partiti, altro non è che una richiesta di autenticità. Di qui la diffidenza per le mediazioni della politica e dei partiti tradizionali, la fascinazione per forme di partecipazione e di democrazia diretta. Di conseguenza, pensare di rispondere alle sollecitazioni di questo mondo dicendo solo e sempre di sì, indipendentemente dal merito, rappresenta il modo più rapido e più sicuro per alimentare quella reazione di disprezzo che tende a mettere tutti i partiti e tutti i leader politici sullo stesso piano.
La quinta ragione è che una sciocchezza è una sciocchezza, e basta. Una posizione oggettivamente traballante non è mai una buona base per costruirci sopra alcunché: né una casa, né una centrale elettrica, né una politica.