Non è vero che la storia sarà più generosa della cronaca con Silvio Berlusconi, come sostiene da tempo il direttore del Corriere della sera. Lo sarà meno. L’eredità politica del Cavaliere è un’Italia sull’orlo della bancarotta finanziaria, politica e civile. Tutto considerato, le cronache dei grandi giornali sono state con lui fin troppo tenere, anche in questi giorni. In tanti, nel momento stesso in cui invitano l’opposizione a mostrare senso di responsabilità, proseguono nella loro irresponsabile campagna contro la politica e le istituzioni democratiche, alimentando nell’opinione pubblica un risentimento cieco e disperato. Un’indignazione che non è motore di cambiamento ma fattore di conservazione, spinta all’autoassoluzione nel generale discredito del paese: se tutti sono colpevoli nessuno lo è davvero, se così fan tutti così posso fare anch’io. Esattamente il contrario del necessario.
Per uscire dalla crisi, però, bisogna sapere anzitutto come ci siamo entrati. Un buon indizio sono le parole dello stesso Berlusconi contro i riti della Prima Repubblica e della vecchia politica, con cui a suo giudizio si vorrebbe sovvertire in parlamento il responso degli elettori. Questa idea di un’investitura diretta del capo del governo e della sua maggioranza rappresenta il primo e il più grave colpo inferto in questi anni all’impianto della nostra Costituzione. Ancora una volta, anche nella trattativa sul programma del nuovo governo, il berlusconismo individua come ultima trincea la difesa di questo paralizzante bipolarismo di coalizione, e cioè del sistema politico-istituzionale che dall’inizio degli anni 90 ha regalato all’Italia la lunga glaciazione economica e sociale in cui siamo ancora imprigionati, reso praticamente impossibile ogni riforma e ogni reale cambiamento politico, assicurando così per vent’anni l’insuperabilità della centralità berlusconiana all’interno del sistema. Almeno per via democratica, come abbiamo visto.
Da parte di chi in questi anni si è sempre battuto contro il berlusconismo, e non solo contro Berlusconi, la prima condizione per appoggiare un governo Monti dovrebbe essere pertanto il ritorno allo spirito e alla lettera dei principi costituzionali. Questa è l’unica base sufficientemente solida, capace di sostenere una larga convergenza tra destra e sinistra, su cui si può pensare di cominciare a ricostruire. Come lo stesso Mario Monti ha sostenuto in diverse occasioni, la prima condizione per uscire dalla paralisi italiana è ricostruire le condizioni minime di agibilità e mobilità della politica democratica, fuori dalle camicie di forza di due poli fittizi, prigionieri delle rispettive contraddizioni, e di un gioco di interdizione reciproca che quelle contraddizioni rendono sin troppo facile. Finché questo sistema resterà in piedi, ogni solenne cerimonia di addio alla stagione berlusconiana sarà prematura e azzardata.
C’è però una seconda condizione che il Partito democratico dovrebbe far valere da subito, prima di dare il suo appoggio al nuovo governo, e riguarda il rapporto tra la sinistra e quel vasto mondo industriale, editoriale e finanziario che dopo avere felicemente convissuto con il berlusconismo vorrebbe oggi fare tutte le parti in commedia, da un lato spingendo il Pd ad appoggiare l’esecutivo Monti da posizione di totale sottomissione politica e culturale, dall’altro alimentando le peggiori forme di populismo anti-sistema. Il gioco è sempre lo stesso: logorare la sinistra, delegittimare i suoi partiti e aprire uno spazio al centro per sostituire finalmente Berlusconi con qualche altro campione del mondo industriale o finanziario, che possibilmente non faccia le corna ai vertici internazionali, che sia un po’ più educato, più elegante e magari meglio pettinato.
Chi ha a cuore le sorti dell’Italia sa che questo gioco non è più sostenibile. La necessità di salvare il paese dal fallimento richiede il massimo della responsabilità e della coesione, il che significa anzitutto respingere con fermezza ogni forma di speculazione, economica e politica. E’ una responsabilità di cui tutti devono farsi carico, ciascuno per la sua parte. O tutti o nessuno.