Nel dibattito sulle riforme del mercato del lavoro ci sono due concetti molto usati, ma spesso non definiti, quindi utilizzati in modo ambiguo: flessibilità e sicurezza. A questi due concetti nebulosi se ne è aggiunto un terzo, quello di flexicurity, anche questo spesso utilizzato senza una sua precisa definizione e quindi in assenza di una discussione sulla sua importabilità in contesti socio-economici molto lontani da quello originario.
Il termine flexicurity è stato introdotto nel dibattito agli inizi degli anni novanta con riferimento alla riforma del mercato del lavoro danese del 1993. In quel periodo la Danimarca aveva una elevata disoccupazione (oltre il 10%) e generosi sussidi che incentivavano comportamenti opportunistici.
Al fine di evitare il verificarsi di trappole della disoccupazione, le riforme introdotte rafforzarono il nesso tra erogazione dei sussidi e partecipazione a politiche attive, oltre al miglioramento dei servizi per la ricerca effettiva di lavoro, ma senza ridurre l’elevata generosità dei sussidi. In poco più di un decennio, il tasso di disoccupazione scese fino a un valore di poco superiore al 3%, accompagnato da elevati e crescenti tassi di occupazione. Vale la pena sottolineare che la vera innovazione della riforma danese è consistita nell’introduzione di politiche attive del lavoro pervasive, non nella riduzione del grado di protezione dell’occupazione. Inoltre, tra gli ingredienti del successo danese vi è non solo la riforma del mercato del lavoro, imperniata sul nesso tra politiche attive e passive, ma la sua combinazione virtuosa con la stabilità macroeconomica e la crescita.
Il caso danese viene spesso descritto come un triangolo dorato i cui tre vertici sono formati da un mercato del lavoro altamente flessibile, con livelli di flessibilità in entrata e in uscita comparabili con quelli dei paesi anglosassoni, un sistema di protezione sociale generoso e a carattere universale, infine schemi di attivazione efficienti, propri del tradizionale modello di welfare scandinavo. Secondo tale visione la flexicurity porterebbe al seguente processo: il mercato flessibile espelle di frequente un alto numero di lavoratori, che accedono ai sussidi di disoccupazione; i lavoratori espulsi rientrano nell’attività o in un lasso di tempo relativamente breve, grazie anche all’aiuto dei servizi per l’impiego, o in un lasso di tempo più lungo, dopo essere passati attraverso schemi di attivazione che ne incrementino qualifiche (skills) e occupabilità.
Non esiste in letteratura una definizione universalmente accettata del concetto di flexicurity. Nel gergo comunitario, il concetto è utilizzato per indicare una strategia virtuosa che riesce a combinare un aumento della flessibilità sul mercato del lavoro con un rafforzamento della sicurezza sociale e della occupabilità dei lavoratori, senza creare una segmentazione del mercato del lavoro. Wilthagen e Tros, due studiosi della flexicurity, la definiscono come “una strategia che tenta, in maniera sincronica e deliberata, di aumentare, da un lato, la flessibilità dell’assetto del mercato del lavoro, della sua organizzazione e delle relazioni industriali e lavorative; dall’altro di accrescere la sicurezza – sia sociale che di occupabilità – soprattutto dei gruppi più deboli, interni o esterni al mercato del lavoro”. In base a questa definizione, ripresa implicitamente nei documenti comunitari, tale strategia non va intesa come una semplice protezione sociale di tipo compensatorio per una forza lavoro flessibile; al contrario, gli aggettivi “sincronico” e “deliberato” invitano a porre l’accento sul carattere di simultaneità e coordinamento delle politiche e su come queste vadano perseguite in maniera integrata e bilanciata.
Se, in astratto, strategie di riforma ispirate alla flexicurity possono essere valutate positivamente, è necessario verificare in che misura è possibile replicare il successo del modello danese. Tra le condizioni necessarie vanno ricordate la sostenibilità fiscale, la capacità di progettare e implementare efficaci politiche attive (che includono servizi di orientamento, addestramento, istruzione, collocamento), un sistema di relazioni industriali imperniato su un clima cooperativo tra le parti sociali e un forte decentramento territoriale, infine una struttura produttiva fortemente imperniata sull’innovazione tecnologica, dove politiche del lavoro e politiche industriali si combinano al fine di promuovere l’innovazione. Va precisato che nel modello danese le politiche attive sono lo strumento principale che permette a un sistema di imprese innovative di disporre di forza lavoro costantemente riqualificata in base alle esigenze produttive.
Il modello danese presenta anche alcune criticità. In primo luogo, anche durante la lunga fase espansiva, la flexicurity non è riuscita a risolvere le difficoltà di inserimento lavorativo dei gruppi cosiddetti svantaggiati – immigrati e/o lavoratori con basso livello d’istruzione e basse qualifiche – in quanto non in grado di riqualificarsi attraverso le politiche attive. Sono quindi soprattutto i lavoratori più qualificati quelli che traggono vantaggio dalle politiche attive: attraverso gli schemi di attivazione riescono a riqualificarsi e a sostenere le esigenze di crescita della produttività. Si è pertanto venuto a creare un effetto paradossale per cui molte delle risorse disponibili sono spese per i lavoratori più produttivi, anziché essere destinate ai lavoratori meno produttivi, con maggiori difficoltà di inserimento lavorativo.
In secondo luogo, il modello danese della flexicurity è molto costoso, difficilmente sostenibile in una fase di recessione. La Danimarca è il paese nell’Ue che nell’ultimo decennio ha speso più risorse (in termini di quota sul Pil) per l’insieme delle politiche del lavoro, attive e passive. Nel 2004, con un tasso di disoccupazione del 5,5% la Danimarca è arrivata a spendere il 4,34%, a fronte del 2,23% nell’Ue a 15 e del 1,28% in Italia (con un tasso di disoccupazione del 8,3% e del 8%, rispettivamente). Gli aggiustamenti apportati negli ultimi sette anni hanno portato a una lieve contrazione della spesa totale, che rimane comunque a livelli elevati (pari al 3,21% del Pil nel 2009).