La riforma del mercato del lavoro allo studio in Italia punta a introdurre elementi di flessibilità per le imprese, accompagnati da maggiori tutele individuali per i lavoratori disoccupati. Il modello, la cosiddetta flexicurity, non è altro che una revisione dell’impianto istituzionale del mercato del lavoro (ma bisognerebbe piantarla col singolare e cominciare a parlare di “mercati”) attraverso una modifica delle relazioni contrattuali. Al di là del giudizio politico sui singoli provvedimenti, mi interessa mettere l’accento sulle due ipotesi su cui si basa l’approccio liberale e che, purtroppo, ricevono poca attenzione nel dibattito pubblico.
La prima idea implicita nella riforma è che il diritto del lavoro abbia conseguenze sull’economia reale, che sia capace di incidere sull’occupazione, sui salari e sui profitti. L’ipotesi possiede un sicuro fascino teorico e ricerca la sua forza empirica nell’osservazione delle differenze di sviluppo tra Paesi, ognuno dotato di un particolare assetto giuridico. Tuttavia, la debolezza dell’argomentazione si concretizza nell’osservazione dell’economia di uno stesso Paese nel tempo: è difficile imputare alla presenza dello Statuto dei Lavoratori (in vigore dal 1970 in Italia) la stagflazione degli anni 70, gli incrementi salariali degli anni 80, la perdita di potere d’acquisto dei redditi da lavoro degli anni 90, la deindustrializzazione degli anni Duemila. E’ un po’ troppo. Lo Statuto non ha impedito inoltre al Nord Italia di raggiungere e mantenere per lunghi periodi la piena occupazione e un livello di benessere tra i più alti al mondo.
La seconda ipotesi, più ampia, riguarda il modello di sviluppo da adottare per uscire dalla crisi. Si tratta di una politica di stimolazione dell’offerta, con un orientamento alle esportazioni. Se da una parte è indubbio che l’Italia non riesce a generare un avanzo commerciale tale da compensare le spese per le importazioni di energia e il pagamento degli interessi sul debito pubblico in mano ai non-residenti, d’altra parte sembra che la classe dirigente non voglia vedere che il peso dell’industria esportatrice italiana nella generazione di ricchezza non supera il 30% del pil e occupa una quota calante di lavoratori. Sembrerebbe dunque che le esportazioni, in concorrenza con Cina ed Europa orientale, e stimolate attraverso l’indebolimento dei sindacati, il contenimento salariale e la miniaturizzazione dei rapporti di lavoro, non possano incidere più di tanto sulla crescita nazionale, ma piuttosto su una redistribuzione del reddito, in particolare del lavoro dipendente. Sebbene la politica industriale non sia in necessaria contraddizione con una riforma dei servizi (65% del pil), appare chiaro che sono proprio i servizi, per natura non soggetti alla concorrenza esterna, a rappresentare il nodo cruciale della crisi italiana.
La risposta del governo Monti (e di larghe fette della sinistra riformista europea) è la liberalizzazione dei servizi. L’idea è che la riduzione dei prezzi dei beni di consumo compensi o addirittura ribalti il declino dei salari. Di nuovo, però, sembra di fare i conti con budget familiari più ipotetici che reali. Chiunque abbia una minima esperienza con la quadratura dei conti di fine mese è consapevole del fatto che le spese principali sono quelle per l’abitazione. Un risparmio di pochi euro per un’aspirina sono poca cosa rispetto a quanto reddito viene assorbito dal pagamento di affitti o mutui. La questione abitativa è dunque strettamente legata a quella salariale. Oggi gran parte della ricchezza generata dal lavoro produttivo è reindirizzata non al consumo di beni industriali, che generano occupazione e reddito, ma al trasferimento di diritti di proprietà che generano soltanto rendite finanziarie improduttive. L’idea che il sistema finanziario o i trasferimenti di ricchezza intergenerazionali potessero sostituirsi al risparmio individuale si è dunque rivelata dannosa e iniqua.
Il piano di riforma liberale può piacere o non piacere (e qui non piace) ma è destinato a generare povertà e disuguaglianze se l’incoerenza del suo impianto non sarà corretta con una politica pubblica delle abitazioni, che comporti un abbattimento drastico dei prezzi delle case. A meno che non si desideri una cementificazione selvaggia dettata dagli interessi privati, solo lo Stato può intervenire a calmierare i prezzi attraverso un’edilizia popolare di qualità, che rispetti l’assetto urbanistico delle nostre città e, soprattutto, garantisca una vita più degna a tutti i cittadini.