In un saggio del 2004, ormai classico, per comprendere la questione cattolica dal punto di vista politico negli Stati Uniti, il columnist cattolico liberal del Washington Post, E.J. Dionne affermava che “il voto cattolico non esiste, ma è importante”. Dionne raccontava la storia della campagna presidenziale del candidato democratico Al Smith nel 1928 (sconfitto anche grazie all’anticattolicesimo imperante allora in America), in cui il governatore di New York veniva regolarmente interrogato sul contenuto di questa o quella enciclica. Una volta Al Smith fermò i suoi inquisitori, si rivolse a uno dei suoi consiglieri e gli chiese: “Si può sapere che cos‘è un’enciclica”? Il 1928 è ormai lontano, e l’America non è l’Italia: ma le traiettorie del voto cattolico nei due paesi sono indicative di alcune tendenze in atto, utili per interpretare le ansie di quanti tentano di farsi scudo della “questione cattolica” in Italia per mettere in discussione il rapporto tra Pd e Pse.
Le questioni-chiave per il magistero cattolico, così come esso si rivolge a quanti sono impegnati in politica oggi, sono notoriamente quelle dei “valori non negoziabili”, espressione entrata nel linguaggio corrente grazie all’allora cardinale Ratzinger in un documento della Congregazione per la Dottrina della Fede del 2002. Questi valori non negoziabili hanno a che fare principalmente con la difesa della vita, ma il modo del magistero e dell’istituzione ecclesiastica di “forzare” questi valori sui cattolici impegnati in politica (in quanto elettori e in quanto eletti) varia grandemente. Negli Stati Uniti vari vescovi hanno minacciato di escludere dalla comunione eucaristica politici cattolici del Partito democratico per il loro voto a disegni di legge riguardanti contraccezione e aborto, ma nessun rappresentante dei Repubblicani ha mai ricevuto minacce simili per il sostegno alla pena di morte. Dal 2002 in poi vi è stata una progressiva restrizione, specialmente in Europa e negli Stati Uniti, della libertà dei politici cattolici di “mediare politicamente” tra esigenze valoriali diverse e opposte in un mondo plurale popolato sempre più di “stranieri morali”: tanto più in un mondo tecnologico, globalizzato e proceduralizzato, in cui è diventato sempre più arduo il discrimine teologico-morale classico tra “cooperatio formalis” (quando si coopera col male anche nell’intento di compiere il male) e “cooperatio materialis” (quando si coopera col male nel tentativo di fermare o ridurre il danno). Nella dottrina cattolica ufficiale oggi un voto per legalizzare e limitare il numero degli aborti passa per “cooperatio formalis” e non certo come “cooperatio materialis”. Anche nel centrosinistra italiano (e poi nel Pd) si sono avuti, nell’ultimo decennio, casi simili a questo, con le gerarchie ecclesiastiche impegnate a contrastare pubblicamente la libertà dei politici cattolici di trovare soluzioni legislative di mediazione adatte allo spazio pubblico. Ma a chi vuole argomentare sulla presunta estraneità tra la cultura politica dei cattolici e dei progressisti europei, bisogna ricordare alcune coordinate di base della questione.
In primo luogo, i cattolici del mondo occidentale sono coscienti della gravità di questioni morali come l’aborto e le tecnologie di manipolazione di inizio e fine della vita umana. Ma su questo hanno imparato a non farsi fare la lezione dalle destre che, negli ultimi tre decenni, hanno manipolato le questioni morali classiche del magistero cattolico a puri fini elettoralistici: quando per cinico calcolo (come Reagan, George Bush padre e Berlusconi), quando per incauto entusiasmo da born again (come George W. Bush). La parabola politica degli evangelici negli Stati Uniti parla chiaro: dopo le delusioni patite durante il trentennio compreso tra Reagan e Bush junior, il voto degli evangelici è tornato lentamente a essere un voto disponibile sul mercato, e indisponibile a farsi vendere in blocco al miglior offerente. Il voto dei cattolici ha imparato da questa storia, in America e non solo.
In secondo luogo, specialmente sulle questioni economico-sociali il voto dei cattolici è molto più influenzato, oggi ai tempi della crisi più di dieci o venti anni fa, da una effettiva vicinanza delle politiche progressiste con un magistero sociale della chiesa che inizia in età moderna con la Rerum Novarum di Leone XIII (senza parlare del diritto canonico medievale, che non solo consentiva ma ingiungeva al povero di rubare per sfamarsi). Con buona pace dei poliarchisti di casa nostra, almeno in America è diventato ormai chiaro, anche ai cattolici di destra (chiedere a Rick Santorum), che la poliarchia è il risultato di una mediazione tra potere del mercato e potere della politica. Quando nasce come istanza sociale a sé, la poliarchia viene inghiottita dall’uno o dall’altro. In altre parole, la chiesa cattolica viene identificata con le questioni di morale sessuale, ma non è un caso che i candidati cattolici diventino politicamente appetibili anche al di fuori del recinto cattolico quando riescono ad attingere alla tradizione cattolica di equilibrio tra capitale e lavoro.
In terzo luogo, la chiesa cattolica oggi vive in uno stato di transizione e sospensione, dal punto di vista della sua collocazione sulle questioni politiche, anche a causa della particolare biografia intellettuale del papa tedesco. Ma le sue anime “politiche” sono assai più profonde e resistenti di quanto non dica la censura mediatica subita da parte dei cardinali (non a caso, non europei) più sensibili alle questioni economico-sociali (come il cardinale Turkson, firmatario del documento sulla riforma della finanza internazionale dell’ottobre 2011 pubblicato dal “Pontificio Consiglio Iustitia et Pax”). Ma il magistero cattolico sulle questioni economico-sociali è ben più antico del magistero del pontefice regnante, chiunque egli sia. La forza intellettuale del cattolicesimo sta nel fatto che sulle grandi questioni la tradizione viene ribadita e allo stesso tempo sviluppata nel tentativo di essere fedeli al Vangelo in uno sforzo creativo di rispondere alle emergenze sociali del mondo in cui viviamo. Nessuno ormai più sostiene la naturale compatibilità del cattolicesimo col liberismo, né l’idea di un “comunismo originario” nel magistero sociale di Gesù di Nazareth. Nei suoi grandi documenti il magistero sociale cattolico tenta di non prestarsi troppo allo Zeigeist, anche in materia economica. È sulla pelle delle persone che si giocano le dottrine economiche, e la chiesa sa che un magistero sociale respinto dai fedeli è come se non fosse stato mai proclamato.