Il filosofo Leo Strauss ha teorizzato nel dopoguerra la nascita di una nuova figura retorica, la reductio ad Hitlerum: paragonare l’interlocutore a Hitler, o ad altro personaggio unanimemente considerato come l’incarnazione del male, squalificando così in partenza ogni sua argomentazione. Un’interessante variante dei nostri tempi di tale figura retorica potrebbe chiamarsi reductio ad antieuropeistam.
Di fronte alla critica di un determinato provvedimento si risponde invariabilmente: “Ma è l’Europa che ce lo chiede”. Accusando chiunque esprima il minimo dubbio di essere contro l’Europa: un euroscettico o addirittura un antieuropeista. A loro volta queste categorie tendono a coincidere con quella del “populismo”. L’argomento raggiunge così un eccellente risultato dialettico: l’avversario viene sprofondato in un magma indistinto di irrazionalità, in compagnia di movimenti nazionalisti, regionalisti, xenofobi, neonazisti. Un coacervo di estremismi vari, che fanno appello agli istinti più bassi delle masse per biechi fini elettorali.
Le persone ragionevoli, invece, quelle che hanno a cuore il bene comune invece che gli interessi di parte, non possono fare altro che schierarsi dalla parte dell’Europa, alla quale, in un processo lungo, accidentato ma comunque teleologicamente orientato verso il meglio, devono essere via via trasferite nuove competenze da parte degli Stati riluttanti. Poco importa che l’applicazione letterale delle richieste del fiscal compact rischi di sprofondare il continente in una devastante spirale recessiva. E’ l’Europa che ce lo chiede.
Prima di cospargersi il capo di cenere e incamminarsi in pellegrinaggio sulla via di Bruxelles, è forse però il caso di porsi qualche domanda. Come mai l’ortodossia europeista si trova assediata da questo brulicare sempre crescente di eresie? Si tratta dell’inevitabile e radicale corruzione del genere umano? O forse c‘è qualcosa che non va nell’ortodossia stessa? Non nel progetto di un’unificazione europea, ma nel modo in cui questa unificazione è stata pensata e realizzata. Forse, paradossalmente, è proprio la burocrazia europea l’istituzione più antieuropeista in assoluto.
Un tempo, forse, si sarebbe detto che la concezione giuridico-formale che sta alla base dell’architettura europea, concedendo uno spazio solo marginale alla rappresentanza politica, impedisce ai cittadini di riconoscersi negli organismi e nelle persone che la compongono, lasciando insoddisfatto il loro bisogno ineliminabile di partecipazione. Si sarebbe detto che è intrinseco nell’atteggiarsi a istituzione meramente tecnico-amministrativa il non riuscire a concepire la politica se non come manifestazione immediata e irrazionale di bisogni ed emozioni che tendono a convergere su uno o più capi carismatici.
Del resto, ponendosi come entità non-ideologica, l’Unione europea esprime in realtà un’ideologia assai più esclusiva e intollerante delle precedenti. Una teologia escatologica secolarizzata a cui tutto il processo di unificazione è improntato: l’idea che l’Europa potesse essere qualcosa di assolutamente “nuovo”, che permetteva, con uno slancio, di spingersi oltre le rispettive storie, verso un mondo senza tempo e senza storia.
Questo, forse, si sarebbe detto un tempo. Oggi si dice solo: “Ma ce lo chiede l’Europa”.