I commenti alla condanna di Silvio Berlusconi nel processo definito “diritti Mediaset” si sono concentrati molto su Berlusconi, poco su Mediaset e quasi per niente sul loro ruolo nell’industria italiana dell’audiovisivo. L’accusa era di frode fiscale e costituzione di fondi neri all’estero. Fondi generati acquistando e vendendo film. Cinema, serie televisive, insomma opere considerate immateriali (soprattutto ora che con il digitale non si materializzano più in pesanti pizze di pellicola), che sono frutto sì di creatività, inventiva, talento, ma che sono anche prodotti, che discendono da precise filiere, che coinvolgono il lavoro e l’impegno di tante persone, che in breve creano ricchezza per le nazioni che vogliono vederli come fonte di sviluppo.
Tutto questo in Italia non è stato. Si dice che la colpa sia di un’impostazione assistenziale, che ha creato mostri il cui ego smisurato si poteva placare soltanto con iniezioni di capitali a fondo perduto per produrre opere che nessuno voleva vedere. Ma la storia di questi anni, ricostruita in parte dagli stessi magistrati di Milano, ci dice qualcos’altro. Ci dice che questa industria italiana, che ogni volta che sta per assestarsi trova nelle normative nazionali l’occasione per bloccarsi, l’ostacolo maggiore lo ha trovato proprio in un tycoon della televisione. Che cosa è successo?
Le reti di Berlusconi hanno cambiato il modo di fare Tv. Prima c’era la Rai e il canone, poi c’è la Tv che serve a raccogliere pubblicità. Intorno a prodotti, serie, programmi, perlopiù acquistati all’estero a basso prezzo. Su questa offerta si è creato il mercato dell’inserzione pubblicitaria. Non più Carosello, ma massicce dosi di spot a pagamento, venduti in genere in palese condizione di dumping. Nascono così merci che vivono lo spazio dell’Italia da bere: grandi mobilifici presto falliti miseramente, di cartone come i mobili che vendevano, i serramenti di alluminio anodizzato che sdoganano le tette in Tv ma che poi scompaiono dal mercato, i prosciutti che smettono di fare pubblicità non appena è la crisi che comincia a mordere.
Le Tv creano prodotti evanescenti come le storie che li rappresentano, che però qualcosa di concreto creano: gli introiti pubblicitari che permettono l’acquisto di ciò che serve a riempire i palinsesti. Materiale, scopriamo oggi (ma chi conosce il settore lo aveva intuito da anni), che può generare profitti illeciti, perché comprato e venduto al mercato nero. Perché c’è un mercato nero dei film, ci sono intermediari che non hanno nulla da imparare da chi intermedia in materie illecite, costruttori di scatole cinesi al fondo dell’ultima delle quali c’è un film. In genere di serie Z, inguardabile, venduto in pacchetti per non mostrarne l’inconsistenza, o magari un capolavoro che rientra per le stesse regole in offerte “un tanto al chilo”.
Si dirà: fintantoché un magistrato non accerta gli illeciti, che male c’è? E’ il mercato, no? Quello invocato anche da noi cineasti che non riusciamo più a rendere remunerativo il lavoro che facciamo perché le Tv oggi non pagano più per questo. Ma quello che ci ha portato fin qui non è stato forse il traffico illecito che ha affossato la produzione nazionale, privilegiando acquisti all’estero, invece di produzioni nazionali che risulterebbero comunque più trasparenti e tracciabili? Tutto questo ha prodotto oggettivamente un sistematico impoverimento dell’industria nazionale.
Poi c’è stata la famosa legge 122 che Walter Veltroni e il centrosinistra vollero per allineare l’Italia a quella direttiva europea, “Televisioni senza Frontiere”, che iniziò a segnare obblighi di investimento e programmazione per le Tv nazionali, rispettando e incrementando il prodotto europeo, meglio se realizzato da produttori indipendenti. Quella legge ha fatto rinascere l’industria del cinema italiano che è potuto arrivare fino al 36% degli incassi nazionali, ma ha fatto anche crescere e prosperare l’industria della fiction che fino ad allora era prodotto residuale. Poi sono tornati i governi Berlusconi e il ministro Romani con i suoi famigerati decreti ha smontato nei fatti questi obblighi.
E allora, è il momento di fare due conti. 10 milioni di euro di provvisionale per Berlusconi sono decisi in base alle tabelle in mano ai magistrati. Ma l’industria dell’audiovisivo italiano cosa dovrebbe chiedere? Forse ci basterebbe ripristinare regole e principi minimi. Il principio che chi fa guadagni con l’audiovisivo dovrebbe contribuire a produrlo, a finanziarlo. Il principio che una quota dei guadagni realizzati vendendo film e serie televisive dovrebbe essere reinvestita nella produzione, differenziata come generi e tematiche, di altro audiovisivo. L’obbligo, che diventerebbe anche qui opportunità di rilancio di canali oramai vuoti e respingenti, di pensare la programmazione di ciò che si produce/acquista.
Quello che fino a oggi è stato rubricato sotto la voce “processo politico”, oppure “giusta condanna per illeciti fiscali”, venga posto finalmente sotto la voce: paralisi di un’industria che non si vuole far crescere. Da questa sentenza dovrebbe partire un generale ripensamento delle modalità con cui il cinema, la Tv, il racconto del nostro tempo, può generare ricchezza per tutti, e soprattutto può riprendere ad accendere intelligenze, di chi fa e di chi guarda, e non soltanto a offuscarle.