La vittoria elettorale di Barack Obama e la sconfitta del Partito repubblicano, della destra religiosa e dei vescovi cattolici in America sono una cosa sola. In un paese in cui ogni concetto politico ed economico – specialmente quello di “libertà” – diventa facilmente teologia, la disfatta dei sostenitori più radicali dell’ideologia del libero mercato è un evento che non potrà non avere rilevanti conseguenze su molti fronti.
Sul piano politico, il referendum sui quattro anni di Obama ha confermato che gli Stati Uniti sono innanzi tutto un paese stremato da trent’anni di deregulation. Anche così si spiega la riconferma del presidente, a dispetto dell’alta disoccupazione e della bassa crescita. Molto opportunamente i democratici hanno omesso di ricordare l’impulso dell’amministrazione Clinton alla deregulation degli anni novanta. In compenso, il contributo dell’ex presidente alla campagna elettorale è stato essenziale nello spiegare agli americani i risultati raggiunti da quello stesso Obama che nella campagna del 2008 non aveva esitato ad affermare che a suo giudizio Ronald Reagan aveva cambiato il corso della storia americana ben più di Richard Nixon e dello stesso Bill Clinton. Resta comunque da vedere quanti democratici eletti al Congresso in collegi conservatori presteranno alla Casa Bianca un aiuto maggiore di quello arrivato nel corso del primo mandato.
Quanto al Partito repubblicano, il post mortem delle elezioni avviato dal Gop si è concentrato sulla demografia del partito e sulla necessità di espandere la constituency repubblicana anche ai latinos, e non sull’urgenza di un nuovo pensiero sul rapporto tra stato/governo e mercato: come se le due cose – elettori latinos e visioni dell’economia meno social-darwiniste – non andassero insieme.
Dal punto di vista culturale, la fine del sogno repubblicano di un ritorno in grande stile alle politiche ultraliberiste è stata segnata dall’incapacità di accettare aliquote fiscali al livello degli anni Ottanta, specialmente per i grandi redditi e le rendite finanziarie. L’immagine di un Partito repubblicano come partito dei magnati ha aiutato Obama e i democratici a dimostrare l’impresentabilità della piattaforma del Gop. L’ostinazione dei repubblicani nel difendere aliquote risibili per i ricchi, terrorizzare l’elettorato delle classi meno abbienti e presentare proposte di riduzione del deficit prive di credibilità aritmetica ha portato al disastro un partito che appare culturalmente esausto.
A questa ideologia ultraliberista e anti-stato ha inopinatamente creduto di dover dare credito l’episcopato americano, che nel corso degli ultimi due anni ha mosso guerra all’amministrazione Obama. Lo scontro è scoppiato a causa della riforma sanitaria, che impone a tutti i datori di lavoro (enti cattolici compresi) di offrire polizze di assicurazione che coprano tutte le spese mediche (anche per pratiche giudicate gravemente immorali dal magistero della chiesa). Ma lo scontro si è nutrito anche di sostanziali simpatie delle gerarchie cattoliche americane per una visione dei rapporti tra economia, società e stato/governo che sono molto simili a quelle del Tea Party.
Non a caso, le diverse interpretazioni della dottrina sociale della chiesa sull’economia e il ruolo delle istituzioni pubbliche sono state al centro del dibattito nel corso della campagna elettorale americana: con molti vescovi a sostenere una visione di “governo limitato” che appartiene più alla tradizione politica americana che al pensiero sociale cattolico. La copertura alle dottrine del Gop tenta, in buona sostanza, di restituire ai repubblicani il mantello di quel “conservatorismo compassionevole” che era stato uno dei punti di forza di George W. Bush e che è scomparso con lui dalla scena politica americana.
Una conferma della confusione in cui versa la leadership cattolica americana è venuta dall’assemblea della Conferenza episcopale del 12-15 novembre, in cui la Usccb non è riuscita ad approvare un documento sull’economia in America: la bozza bocciata dai vescovi non conteneva riferimenti al più importante dei documenti sociali nella storia della chiesa americana, Economic Justice for All del 1986, pensato in chiave anti-reaganiana, e solo superficiali accenni all’enciclica di Benedetto XVI, Caritas in veritate.
L’aspetto ironico della questione è che la commissione in cui era stato redatto il documento bocciato dalla plenaria era presieduta dall’arcivescovo di Detroit, che si sperava avesse ricavato qualche idea dal contatto con la sua diocesi, l’area degli Stati Uniti più devastata dalla deindustrializzazione. L’aspetto tragico è che dall’inizio della crisi economica e finanziaria negli Stati Uniti, ormai più di quattro anni fa, la conferenza dei vescovi americani non ha pubblicato un solo documento sulla questione. In compenso, l’assemblea di Baltimora ha dibattuto sul ritorno ai venerdì di magro.