L’equivoco del partito contendibile

Le infinite discussioni sulle regole di accesso alle primarie e il mito del “partito contendibile” si possono spiegare a partire da un equivoco riguardo al concetto di concorrenza. Secondo la tradizionale descrizione di un mercato  concorrenziale, la concorrenza è garantita dalla compresenza di una pluralità di imprese che competono migliorando il loro prodotto e sono soggette a selezione in base alla capacità di rispondere alla domanda dei consumatori. Il parallelo con la vita interna di un partito associa le diverse imprese a diverse articolazioni della proposta politica, e la domanda agli elettori del centrosinistra. La concorrenza favorisce il ricambio della classe dirigente e l’innovazione della proposta.

Negli anni Settanta e Ottanta, però, accanto a quella tradizionale si è affermata una diversa nozione di concorrenza. Qualcuno fece notare che a certe condizioni ciò che contava non era tanto la concorrenza nel mercato ma quella per il mercato. La concorrenza per il mercato non è limitata alle sole imprese in esso operanti (anzi, non richiede nemmeno una pluralità di imprese), ma conta sulla possibilità di entrata di outsider, imprese operanti in altri mercati. Queste possono formulare un’offerta, sottoporla ai consumatori, attrarli a sé, lucrare un profitto ed eventualmente uscire dal mercato una volta esaurito il vantaggio dovuto alla rapidità d’azione e al contenuto innovativo. Un mercato soggetto a questo tipo di concorrenza mordi e fuggi si dice “contendibile”. È curioso come questo termine, reso popolare proprio da quell’impostazione teorica, sia progressivamente diventato comune nel dibattito politico (leadership contendibile, partito contendibile, eccetera).

Si sa che gli economisti sono portati a credere un po’ troppo alla validità delle loro teorie anche al di fuori del contesto economico. Quindi non dobbiamo esagerare: alcune analogie con la competizione politica sono indubbiamente forzate. Ma certo colpisce che la condizione per questa concorrenza mordi e fuggi abbia quale requisito l’assenza di costi di entrata o uscita dal mercato stesso. Qui c’è l’analogia più sorprendente con il dibattito attuale sulle regole: una parte del Partito democratico, pur accettando in modo convinto l’idea di un partito in cui si confrontano proposte politiche diverse, vede con timore il possibile inquinamento da parte di soggetti a esso estranei, disposti ad aderire alla proposta solo condizionatamente a un certo esito, per lo spazio di una votazione. Chiede quindi che, al fine di proteggere i connotati del partito stesso, la partecipazione al voto sia condizionata a un minimo “investimento” (metterci la faccia, pagare qualcosa, essere disposti a restare anche qualora dovesse vincere il candidato che non piace).

Un’altra parte del Pd invece ha in mente il partito contendibile, quello aperto a qualsiasi offerta interna o esterna, in cui la fluidità dell’elettorato è il massimo di garanzia di ricambio, novità, aderenza alle preferenze correnti degli elettori/consumatori, che sono tra loro del tutto fungibili. Per garantire tale esito, i costi di partecipazione devono essere idealmente azzerati, e ogni ostacolo è un’indebita barriera e interferenza all’operare della concorrenza. Non stupisce che tra le due visioni ci sia incomunicabilità, e le ragioni degli uni risultino inaccettabili agli altri quando si parla di albi, restrizioni, inquinamento del voto, e così via.

Prendendo come criterio esclusivo l’efficacia del meccanismo disciplinante della concorrenza, il secondo modello, quello della contendibilità, è senza dubbio più attraente. Ma siamo sicuri che sia un esito auspicabile per un sistema politico? Siamo sicuri che l’identità di un partito, la riconoscibilità nel tempo della sua proposta politica, un minimo di garanzia di continuità nel personale che gli dà vita, siano aspetti negativi? Dopotutto, anche l’economia industriale riconosce il valore e l’importanza di aspetti come il marchio, la reputazione, la capacità di garantire il ritorno di investimenti nel lungo periodo, le variabili organizzative, la formazione dei dipendenti. Viceversa, nel mercato contendibile non esistono attriti e l’instabilità è la norma, visto che le condizioni che garantiscono oggi il vincitore potrebbero rapidamente venire a mancare.

Possiamo discutere se questa è la politica che vogliamo. Ma forse non è un caso se, da quando fu formulata suscitando entusiasmo e interesse tra gli economisti, la teoria dei mercati contendibili ha progressivamente perso di rilevanza, e quasi nessuno oggi la considera una descrizione realistica di come funzionano i mercati.