E così, ancora una volta, alle primarie trionfa il candidato dell’apparato, il voto di opinione delle grandi città incorona il grigio burocrate, il popolo dei gazebo acclama il vecchio e noioso Pier Luigi Bersani, l’anti-leader incapace di comunicare. E il “ciclone Matteo Renzi” che doveva rivoluzionare la politica italiana si ritrova più o meno con i voti raccolti nel 2009 da Dario Franceschini. D’altra parte, è dal giorno in cui Rosy Bindi annunciò la sua candidatura alle primarie del 2007 che tutti i giornali ci spiegano, ogni volta, che stavolta saranno primarie vere. Sarà così anche la prossima volta, vedrete. E sarà la prima anche quella.
Il messaggio più efficace, che era forse anche più di un sassolino nella scarpa, il vincitore lo ha lanciato subito: “Un grande partito popolare deve avere fiducia nella sua gente”. E’ giusto. E non vale solo per i militanti e gli elettori. Immaginare di potersi candidare a guidare l’Italia senza avere fiducia negli italiani è il peggiore errore che una certa intellettualità radicale, negli anni passati, ha instillato nella sinistra. Da questo punto di vista, il bagno di folla democratico e popolare delle primarie, smentendo tanti luoghi comuni preconfezionati, non può fare che bene.
Restano però tutte le contraddizioni che la scelta compiuta da Bersani all’inizio dell’estate – in perfetta solitudine – ha lasciato irrisolte, o addirittura aggrovigliato. Bersani ha scelto di attirare le tante forze della disgregazione su un solo terreno, che tutti consideravano quello a lui più sfavorevole. Dimenticando che su quello stesso terreno aveva già stravinto nel 2009. Ma la scelta di Bersani non era per questo meno rischiosa: la naturale dialettica politica, tenuta compressa per mesi con la tregua forzata imposta dal governo Monti e liberata soltanto nei gazebo del centrosinistra, dunque in una campagna elettorale virtuale e tutta interna a una parte sola, poteva esplodergli in faccia. Qui stava la preoccupazione più realistica e più fondata, a proposito di infiltrazioni e inquinamento del voto: non in una manovra organizzata che nessuno oggi avrebbe avuto la forza di condurre, ma in una reazione chimica spontanea e incontrollabile, che poteva fare del centrosinistra una grande Parma, trasformando le primarie in un gigantesco Vaffa-Day.
Le contraddizioni sono ancora tutte lì: nel trionfo ottenuto dal leader che non vuole mettere il suo nome sul simbolo e ha raccolto un plebiscito sulle sue foto da bambino; nell’incoronazione di un candidato premier in nome della difesa di una Costituzione che non prevede candidati premier; nel successo di una proposta politica che offre un accordo ai moderati all’indomani del voto e al tempo stesso chiede una legge elettorale che obblighi a definire le alleanze prima del voto; nell’indiscutibile affermazione personale del leader che più di ogni altro si è battuto contro la personalizzazione della politica.
L’elenco potrebbe continuare all’infinito, perché il punto, in realtà, è sempre lo stesso: quale sbocco si vuole dare alla crisi della Seconda Repubblica. Quale idea di sistema politico – e di conseguenza quale idea di partito – si intende coltivare. La domanda è questa: al tramonto del bipolarismo berlusconiano, incentrato sul presidenzialismo di fatto, sul maggioritario di coalizione e sui partiti personali, liquidi, proprietà privata del leader-titolare del marchio, che cosa ci aspetta? Il futuro non è certo il movimento-proprietario di Beppe Grillo. Al contrario, quello è semmai l’ultimo frutto del sistema che sta cadendo a pezzi, la sua caricatura parossistica.
In questo panorama desertificato e malinconico spicca l’enorme prova organizzativa data dal Partito democratico, che sin da 20 giorni prima del voto ha reso possibile la registrazione di milioni di persone in ogni angolo d’Italia. Come una simile forza abbia potuto resistere alla furia iconoclasta e disgregatrice di questi anni è un mistero. Si direbbe un miracolo. Di sicuro è un raggio di sole che squarcia il buio e indica una strada possibile.