Le alternative del debito

Viviamo a 130. E non perché scoppiamo di felicità, andiamo forte in auto o le nostre giornate girano a mille. 127% è il rapporto tra il debito pubblico e la ricchezza che produciamo in un anno. Duemila miliardi di euro di debiti, trentamila a cittadino, neonati e moribondi inclusi. Ogni debito genera interessi e al netto di questi il bilancio dell’Italia sarebbe in attivo, ma il 6% della ricchezza prodotta se ne va in pagamenti verso i creditori dello Stato. Circa 90 miliardi di euro all’anno.

A beneficio di chi? Circa 30 vanno oltre confine, i restanti due terzi spettano a banche e a fondi italiani che gestiscono i risparmi di chi ancora ne detiene, le classi medio alte. A dir la verità, è un ceto sempre meno medio. Le famiglie attingono dai risparmi per sostenere le generazioni più giovani, a loro volta incapaci di emanciparsi pienamente in un contesto di salari stagnanti. Lo schema ha dato vita a un welfare state familiare, in cui è difficile ravvisare elementi di equità e di efficienza.

90 miliardi di euro all’anno. Tanti, ma tanti quanto? Immaginiamo che il peso degli interessi si dimezzi, 45 miliardi si renderebbero liberi, non per una volta soltanto, ma nel bilancio di ogni anno a venire. 45 miliardi è il costo di 15 metropolitane, due Torino Lione, quattro Salerno-Reggio Calabria e contate voi quante altre infrastrutture possono finanziare, ogni singolo anno.

Siamo disabituati a pensare alle alternative. Quali investimenti pubblici in capitale umano e fisico potremmo improvvisamente sostenere per creare una crescita duratura? Sarebbe possibile equiparare i salari dei lavoratori pubblici a quelli dei loro colleghi europei. Potremmo creare scuole moderne, poli universitari e sanitari di eccellenza mondiale. Potremmo varare forme di educazione permanente per recuperare i disoccupati di lungo periodo e istituire servizi universali di cura dell’infanzia e degli anziani, tutte spese che oggi pesano in modo sproporzionato sulle spalle delle famiglie più deboli. Avremmo le risorse per investire in una burocrazia più leggera e digitale e in una politica di riconversione industriale ad ampio respiro.

Spesso si dice che in Italia le tasse sono troppo alte, almeno per quello che ritorna al cittadino. Ed è vero, dobbiamo imparare a dirlo a gran voce anche a sinistra. Con un lungo e travagliato percorso durato decenni, la pressione fiscale è arrivata a un livello in grado di sostenere un welfare state efficiente, ma che non si è potuto mai realizzare, se non in modo incompleto, a causa degli oneri del debito pubblico.

La nostra storia recente ci ha mostrato che l’approccio graduale di riduzione del debito, quello sposato dalla generazione di Romano Prodi e Carlo Azeglio Ciampi, si è rivelato inefficace e indesiderabile. Non solo ha fallito per ben due volte alle urne, ma è bastato un cambio di governo, ben prima della crisi finanziaria internazionale, per annullare i sacrifici ventennali delle forze produttive della società (lavoratori e imprese) e riportarci al punto di partenza, se non più indietro.

Pier Luigi Bersani, in quanto candidato premier del centrosinistra, deve spiegare come intende liberare l’Italia dalla morsa del debito, in tempi relativamente brevi. Tutto il resto sono dettagli secondari. E’ una sfida politicamente complessa, che non ha implicazioni di mera natura finanziaria ma solleva domande esistenziali su quale sia il ruolo storico della sinistra in questo paese. Non c’è più tempo da perdere: nel lungo termine saremo tutti morti. E questa non è la battuta di un comico genovese votato all’antipolitica. Ma la caustica osservazione di Keynes, economista faro della socialdemocrazia contemporanea, purtroppo solo quando gli scogli sono lontani.