I frequentatori abituali della Versilia sapevano che, tenendo un occhio sul vialone lungomare, quello che corre tra i “capanni” degli stabilimenti balneari e la prima fila di ville e alberghi lussuosi, prima o poi l’avrebbero visto: capelli lunghi e mesciati al vento, rigorosamente senza casco, a torso nudo per poter prendere il sole ammodo e rimediare un po’ all’antiestetica abbronzatura sfigata da ciclista, con la salopette rimboccata in vita su addominali che sembravano scolpiti da Prassitele.
Poi magari, a essere fortunati e a patto di aver prenotato in uno dei cinque o sei bagni più alla moda tra Forte dei Marmi e Lido di Camaiore, poteva pure capitare che il Re Leone, Mario Cipollini, secondo molti il più grande velocista della storia del ciclismo, sterzasse secco, imboccasse il vialino incurante di ghiaia, pedoni, altre biciclette sopraggiungenti, e finisse la mattinata a bersi un aperitivo e, perché no, a fumarsi una sigaretta a un paio di tavolini di distanza, attirando subito ammiratori e soprattutto ammiratrici. Sempre a torso nudo, con un’aria da re del mondo e quella cadenza toscana che ha fama di far simpatia. E dopo una sgambata di 100, magari anche 150 chilometri bevuti con la noncuranza con la quale ci si scola un Negroni sbagliato.
Io, che della Versilia sono habitué per motivi famigliari, ma frequento il relativamente proletario bagno “Onda Marina”, l’avrò visto quelle tre, quattro volte in dieci anni, ma amici e parenti locali assicurano che quella apparizione sfolgorante era la norma.
Mario Cipollini, dicevamo, passava per essere “il più grande velocista della storia del ciclismo”. Intendiamoci: in volata era fortissimo. Tuttavia, più forti o più vincenti di lui furono Van Looy, De Vlaeminck, Van Steenbergen, Kelly, Maertens, Saronni, Freire. Tra i corridori in attività, Boonen. Certo, tutti questi sono stati velocisti, ma anche qualcosa di più: campioni veri, capaci di vincere grandi classiche a ripetizione e persino qualche sporadica corsa a tappe (Saronni vinse due Giri, per dire). Cipollini è stato certamente, per un decennio tra i primi anni Novanta e l’inizio degli anni Duemila, il più forte di tutti i velocisti da volata di gruppo, cioè di quella categoria particolare di corridori che potremmo paragonare a dei centometristi capaci di correre come Usain Bolt, ma dopo aver fatto la maratona. Ecco, in quello Cipollini probabilmente non ha rivali nella storia, anche grazie al lavoro forsennato e perfetto delle sue varie squadre che lo proteggevano nella pancia del gruppo per duecento chilometri, poi lo scortavano in testa al gruppo e si mettevano a fare il “treno”, cioè a macinare gli ultimi 10 chilometri a velocità pazzesca, in modo da impedire i colpi di mano e portare il Re Leone già lanciato a 60 all’ora a 150 metri dal traguardo. A quel punto, Cipollini faceva quel che nessun altro sapeva fare, almeno non bene come lui: passare dai 60 all’ora ai 70 in cinque pedalate, e poi tenere quella velocità per i restanti cento metri, fino alla linea d’arrivo.
Mario Cipollini ha vinto molto: 189 vittorie complessive, delle quali 57 in tappe di uno dei tre grandi giri (secondo di ogni tempo dietro a Merckx, che ne ha raccolte 64), nonché recordman dei plurivincitori di tappe al Giro d’Italia (42, una in più del grande Binda). Vinse poi anche una Sanremo, tre Gand-Wevelgem e un Mondiale, nel 2002 a Zolder, in Belgio. Una carriera di tutto rispetto, certamente, ma anche una carriera a suo modo deludente, visto l’indiscusso potenziale. Agli inizi della sua carriera professionistica, Cipollini veniva indicato da molti come un possibile dominatore della scena delle grandi classiche, non solo delle volate di gruppo. Ricordo nei primissimi anni 90 il vecchio De Zan asserire che Cipollini, preparandosi adeguatamente, avrebbe potuto vincere tutte le corse in linea più importanti, con l’unica esclusione del troppo scosceso Lombardia. Che avesse un motore capace di spianare strappi anche secchi, ma brevi, era del tutto evidente. Però pare che non ne avesse la voglia. In effetti, la profezia di De Zan non si avverò. Cipollini non fu mai il nuovo Van Looy. Si accontentò di essere Mario Cipollini.
C’è una definizione un po’ ingenerosa che gli appassionati danno a corridori del genere di Cipollini: ciclisti di plastica. Ingenerosa perché, dopotutto, quello sprint di 150 metri viene pur sempre dopo una maratona, tutte le sante volte. E per vincere una maglia ciclamino a Milano (quella della classifica a punti del Giro) bisogna aver fatto pure lo Stelvio, il Pordoi e il Mortirolo senza finire fuori tempo massimo. Senza tirarsi il collo, ma anche di buona lena. E come diceva sempre il vecchio De Zan, in salita gli ultimi fanno sempre più fatica dei primi. Però parliamoci chiaro, Cipollini restava un corridore da un flash di 10, 15 secondi. Bravo, bravissimo a far quello. Popolarissimo e guascone. Un acrobata e un temerario. Un velocista, appunto. Ma il ciclismo hardcore abita altrove. Abita nei tapponi alpini e pirenaici. Abita nelle lotte al coltello delle grandi classiche. Abita nei testa a testa sulle salite di 20 chilometri e nelle successive discese a rotta di collo tra burroni e muri di neve. Abita tra gli arrivi tutti scatti e controscatti al termine di una Liegi o di un Giro delle Fiandre. Lì Cipollini non c’era mai. 189 vittorie e mai una volta nel cuore del ciclismo, se non in quella straordinaria annata, il 2002, in cui centrò Sanremo e Mondiale. Tuttavia, si noti, ancora una volta le corse più “facili” e per vincere le quali meno avrebbe dovuto stravolgere la sua professionalissima e talentuosissima normalità. E tutte le sue altre numerose vittorie arrivavano dopo tappe noiosissime, quei lunghi trasferimenti nelle pianure francesi o sui morbidi saliscendi italiani al termine dei quali, da spettatore, erano più le volte che ti perdevi le sue magnifiche volate a causa del sonno sopraggiunto nel frattempo che quelle in cui potevi ammirarne i trionfali, ultimi 150 metri.
Per poter diventare un campionissimo Cipollini avrebbe dovuto applicarsi maniacalmente al suo sport, rinunciando a tutto il resto. In verità, fu un grande professionista. Si è sempre allenato con criterio. Ha sempre avuto una forma fisica invidiabile. Ha sempre saputo gestire al meglio le proprie energie per non bruciarsi, e infatti la sua carriera è stata lunga, prestigiosa, ricca di premi e di soddisfazioni. Ma per diventare un indimenticabile, una leggenda del pedale, sarebbe occorso qualcosa in più, quello che hanno saputo dare pochi, pochissimi mostri: Gimondi, Moser, Pantani, per rimanere agli italiani delle epoche più recenti. Quel che sa dare Ivan Basso con un decimo del talento fisico di Cipollini. Il Re Leone non ce l’ha fatta, o forse non ha voluto farcela. S’è accontentato del tanto che, in termini di popolarità e guadagni, era alla portata del personaggio e del velocista che era capace di essere così, grazie a un talento coltivato professionalmente, ma non ossessivamente. Per diventare il nuovo Van Looy, insomma, Mario Cipollini avrebbe dovuto rinunciare a quel petto nudo, a quella sterzata sul lungomare versiliano, a quell’aperitivo, a quella sigaretta, a quel bagno di ammiratori e ammiratrici. Ci credo che risultasse simpatico, il Re Leone: è sempre stato un meraviglioso guascone di talento. Come non amarlo? Se non fosse inappropriato definire così qualcuno che, in ogni caso, prima di quello scatto di 150 metri s’è fatto la maratona, verrebbe da dire che Cipollini fu l’archetipo dello sportivo pigro e vincente. Almeno per la prima parte della definizione, impossibile non riconoscersi un po’ in lui e non volergli almeno un po’ di bene.
È notizia degli ultimi giorni il coinvolgimento di Mario Cipollini nello scandalo dell’Operación Puerto, la gigantesca indagine antidoping partita dall’arresto del medico spagnolo Eufemiano Fuentes e dei suoi collaboratori che ha decimato il ciclismo dei tempi recenti e minaccia ancora di fare vittime pure in altri sport. Sacche di sangue e appunti di Fuentes sembrerebbero riconducibili, secondo le indiscrezioni pubblicate nei giorni scorsi dalla “Gazzetta dello Sport”, proprio al Re Leone, che per vincere Sanremo e Mondiale si sarebbe riempito di Epo e di sangue ossigenato e autotrasfuso. Ipotesi a cui naturalmente ci rifiutiamo di credere, non foss’altro perché a questo punto tutta l’esegesi proposta in questo pezzo rischierebbe di saltare per aria. Il guascone di talento riesce simpatico, pur essendo un ciclista di plastica, proprio perché è guascone. Perché vince anche molto meno di quel che avrebbe potuto, ma manda a te – guascone come lui, ma dotato di un millesimo di quel talento – il rassicurante messaggio che nella vita c’è anche altro e che tra impazzire dietro un’ossessione e godersi un po’ le proprie fortune l’opzione migliore è la seconda. Se finissi invece per scoprire, dieci anni dopo, che quella guasconeria, quella autocompiaciuta noncuranza, quella pigrizia splendidamente ostentata, quell’aura da vincente impastata di quel tanto di sufficienza da far quagliare l’immagine di un uomo felice, sereno, divertito e divertente, insomma quella simpatica cialtroneria non erano altro che l’effetto di superficie delle mene torbide di uno che si dopava come tutti, più di tutti, mettendo a grave rischio la propria salute, la propria carriera, i propri guadagni e la propria reputazione, be’, in tal caso crollerebbero davanti ai tuoi occhi di tifoso e appassionato sia il talento che la cialtroneria. Davanti ti resterebbe solo l’immagine di un uomo un po’ triste e per nulla simpatico, ma soprattutto tremendamente noioso. Un Arsmtrong, insomma, e per giunta incapace di vincere non dico sette Tour di fila, ma almeno una Coppa Bernocchi.