Le elezioni del 24 febbraio hanno cambiato il volto del sistema politico. Ma la novità più evidente, il ruolo assunto dal Movimento 5 Stelle, rischia di oscurare le altre, non meno significative. La prima è che in queste elezioni si è verificato il più massiccio spostamento di voti da almeno vent’anni a questa parte. Un fatto epocale. Per la prima volta dal 1994 è franato il blocco sociale su cui si reggeva l’egemonia berlusconiana: Pdl e Lega non arrivano, insieme, neppure al 30 per cento. Nel 1994 Forza Italia, An e Lega superavano il 42, nel 2008 raggiungevano il 46 per cento.
L’altra grande novità è il rifiuto della logica bipolare da parte degli elettori. Lo spirito del maggioritario su cui è stata edificata la Seconda Repubblica si è dissolto: il nuovo parlamento vede uscire dalle urne quattro poli. Si tratta di due novità che cambiano completamente il campo da gioco. Per essere chiari, una sola delle due non sarebbe bastata, ma le due novità insieme – la riduzione del centrodestra a minoranza e la rottura della logica bipolare – permettono per la prima volta da venti anni di concepire l’impensabile. Silvio Berlusconi all’angolo: né capo del governo, né capo dell’opposizione. Che un simile esito si produca effettivamente nel prossimo parlamento è persino secondario, rispetto alla novità sconvolgente e rivoluzionaria della sua semplice possibilità. Questo è il fatto storico che cambia tutto e con cui tutti, oggi, devono fare i conti: ora è possibile emarginare il Cavaliere dal gioco politico, liberare la democrazia italiana dall’ipoteca che ne ha così pesantemente condizionato lo sviluppo, aprire veramente una fase nuova della storia d’Italia.
Il problema è che a questa svolta della storia la sinistra è arrivata impreparata. La campagna elettorale è stata sbagliata non per errori di comunicazione: la comunicazione era perfettamente coerente con l’analisi della situazione italiana elaborata dal gruppo dirigente e funzionale alla sua strategia. Il problema è che era sbagliata l’analisi. Il Partito democratico si è preoccupato di rassicurare più che di motivare, anche nei passaggi più duri ha anteposto a tutto la necessità di mostrarsi responsabile, credibile e affidabile. Ma il magro risultato elettorale raccolto dai progressisti e il fiasco della lista Monti parlano chiaro. Se i responsabili del collasso del novembre 2011, costretti a lasciare il governo con onta dopo avere portato lo stato sull’orlo della bancarotta, hanno potuto conservare comunque un peso rilevante nella politica italiana, e se il movimento di Beppe Grillo in questo stesso anno è passato dal 5 al 25 per cento, c’è poco da discutere: gli elettori hanno emesso una sentenza di condanna senza appello per il governo tecnico e per l’intera operazione politica che lo ha fatto nascere e sostenuto tanto a lungo.
Su quanto, nel frattempo, le primarie abbiano colmato il fossato tra politica e cittadini, ricompattato il Pd e rafforzato la sua leadership, dopo i risultati elettorali e lo spettacolo degli ultimi giorni, non crediamo valga più nemmeno la pena di discutere. Se non per rilevare che l’effetto è stato esattamente il contrario del previsto: raccontate come un grande sforzo di apertura alla società, le primarie hanno determinato una formidabile chiusura autoreferenziale. E così, rinserrato all’interno del proprio blocco sociale e del mondo dei media, il Pd è uscito dai gazebo come narcotizzato. Non ha visto l’onda in arrivo e non ha neanche capito cosa è successo quando ne è stato travolto, se è vero che adesso le soluzioni più accreditate tra i suoi dirigenti sono un nuovo governo tecnico con il Pdl e la candidatura di Matteo Renzi al posto di Pier Luigi Bersani. Entrambe risposte perfettamente razionali alle domande di un elettorato che avesse lasciato il centrosinistra per premiare i centristi della lista Monti, dopo sedici mesi di governo tecnico sostenuto dal Pd. Ma semplicemente suicide dinanzi al voto espresso dagli elettori il 24 febbraio. Rilanciare con le riforme del lavoro di Pietro Ichino, il modello Marchionne e gli impegni dell’Agenda Monti vorrebbe dire esporsi al rischio non solo della sconfitta, ma del linciaggio.
In questo momento l’Italia si trova in una condizione di eccezionale debolezza e anche di pericolo. È urgente che qualcuno possa al più presto mettere le mani sul timone e governare la nave, esposta a ogni vento nel pieno di una tempesta economica e finanziaria di portata globale, che mina alle fondamenta la stessa costruzione europea. Non c’è grande giornale internazionale che non abbia letto i risultati elettorali come una rivolta contro le politiche di rigore imposte dal governo Monti in Italia e dalla signora Merkel in Europa. Infatti è esattamente quello che è successo. Se questo è vero, però, non è la campagna elettorale o la comunicazione, ma l’intera strategia seguita dal Pd almeno nell’ultimo anno e mezzo che va rimessa in discussione e cambiata, profondamente e rapidamente.
I risultati del voto ci consegnano una situazione mobile come non lo era mai stata prima e pertanto gravida di rischi, ma anche di occasioni. Bersani deve presentare agli italiani un programma minimo di rottura, essenziale e concreto. Nel nuovo parlamento, per la prima volta, sarà possibile fare molte di quelle riforme che per anni una parte della sinistra ha contestato ai dirigenti di non aver fatto, dall’informazione alla giustizia, dalla trasparenza ai cosiddetti costi della politica. Ma ci sarà soprattutto la possibilità di una svolta nelle politiche economiche e sociali, anche nel confronto con le autorità europee. Se Beppe Grillo preferirà continuare a infischiarsene, irridere il centrosinistra dall’alto del suo blog e ripetere che con il capo dello stato ci parlerà lui, per dirgli che quello che vuole è proprio un altro bel governo Pd-Pdl, non farà che dimostrare come il suo movimento sia il meno trasparente, il meno democratico, il meno aperto e partecipato tra tutti i partiti italiani.
Quello che bisognerebbe dire chiaramente, prima di tutto ai grillini, è che il Partito democratico non avanzerà alcuna proposta tattica, non farà esperimenti né manovre parlamentari di alcun genere. Presenterà il programma dei primi cento giorni pubblicamente, davanti a tutti gli italiani. Se Beppe Grillo vorrà assumersi la responsabilità di impedirne la realizzazione, se i suoi parlamentari decideranno di non sostenerlo, vorrà dire che si tornerà a votare e giudicheranno gli elettori. Il centrosinistra deve presentare un programma di svolta, asciutto e chiaro, senza retropensieri e senza piani b: se non sarà il programma di governo, sarà il programma elettorale.