Usciamo dall’europerbenismo

Il successo del Movimento 5 Stelle non è stato il frutto di un complotto, tantomeno di un errore. Alle primarie, gli elettori del centrosinistra avevano detto chiaramente di volere una svolta politica profonda, al di là di una rappresentazione personalistica e anagrafica dello scontro, che pure forse ha finito per influenzare in qualche modo lo stesso Pier Luigi Bersani. Eppure, e il risultato delle primarie per i parlamentari del Pd, col successo dei cosiddetti “giovani turchi”, l’avrebbe poi confermato, era evidente che non aveva vinto il “vecchio” contro il “giovane”. A essere sconfitte, al contrario, erano state l’Agenda Ichino e l’Agenda Monti, e con esse il riproporsi della (vecchia) subalternità al neoliberismo. Gli elettori del Pd e di Sel avevano votato massicciamente per il cambiamento, per una svolta nel segno della discontinuità, e avevano dato a Bersani un forte mandato per realizzare tale svolta. Da qui si deve partire nell’analizzare gli errori della campagna elettorale del Pd e le cause profonde del successo di Grillo.

Oggi più che mai, a sinistra, sono necessari fermezza e discernimento. Ma soprattutto la volontà di non perseverare nell’errore. Non si debbono dimenticare le matrici autoritarie presenti nella cultura e nella pratica politica del grillismo, né sottovalutare la gravità della crisi che sta attraversando la democrazia italiana. Ma sarebbe davvero una perseveranza dai tratti diabolici pensare che la soluzione sia nel rinnovare un fronte unico con l’establishment, nella forma magari di un ennesimo governo tecnico. Ovvero il riproporre esattamente la formula politica che ha portato l’Italia fin qui. Proprio chi non sottovaluta i pericoli della situazione dovrebbe opporsi con fermezza e con reale senso di responsabilità a questa ipotesi, qualunque sia la maschera o il nome sotto cui si potrebbe presentare.

Ma fermezza e discernimento sono necessarie anche nella sfida ai grillini. Si deve uscire da un approccio passivo, da un’idea della politica come camera di compensazione delle spinte sociali. Una visione simile è forse adeguata alle fasi di sviluppo, e alle solide egemonie: non a una fase di acuta crisi economica, sociale e culturale. La risposta del Partito democratico e di Sel al risultato elettorale, pur corretta in sé e per sé, ha ancora i tratti di questa inadeguatezza. La politica deve dare delle risposte forti, nelle crisi – altrimenti viene, presto o tardi, il momento degli uomini forti. Alle 110 mila persone che hanno perso il lavoro in Italia solo nel mese di gennaio 2013 (proprio mentre la campagna elettorale prendeva il via), non si può pensare di andare a raccontare che aboliamo le province, e con questo credere di rappresentare la loro rabbia. O la sfida al grillismo la si lancia sul terreno sociale, o si è destinati a perderla.

Non si tratta di non vedere la rilevanza etica del tema dell’austerità della politica. Durante una crisi, i politici devono guadagnare meno, i partiti e le istituzioni devono costare meno. A condizione (e su questo bisognerebbe saper tenere la barra dritta) di non consegnare la politica in mano ai miliardari. Ma si deve saper comprendere che, al di là di tutte le apparenze, non è questo il punto centrale. Basta, forse, una domanda, per illuminare la risposta: perché nessuno chiese mai la riduzione dello stipendio di Franklin Delano Roosevelt e dei suoi ministri?

La sfida programmatica al grillismo va portata sulle vere radici del successo di Beppe Grillo. Per questo, prima ancora che per il rinnovarsi di una maggioranza con Silvio Berlusconi, un nuovo governo tecnico è inammissibile. Certamente un governo tecnico potrebbe tagliare molti costi della politica: Mario Monti ha fatto alcune cose in proposito, e ciò non gli ha evitato un disastro elettorale senza precedenti, nonostante l’esposizione mediatica di cui ha goduto prima e durante la campagna elettorale. Quel che gli italiani vogliono dalla politica è che risponda alla drammatica crisi che stanno vivendo sulla loro pelle. La Carta d’intenti approvata dal Pd e sottoscritta dagli alleati andava nella giusta direzione. Incredibilmente, in campagna elettorale è stata pressoché accantonata, preferendo un messaggio rassicurante che, dopo un anno di governo Monti, ha finito per spaventare gli elettori.

Oggi è da lì che si deve ripartire, con fermezza e con determinazione, e sapendo cogliere l’occasione storica che si presenta. Pensare di difendere l’euro consegnando l’Italia a Grillo, magari dopo qualche mese di governo tecnico, è ben più irresponsabile che presentare un programma estremamente risoluto sul fronte economico e sociale, oltre che ovviamente sul fronte della lotta contro mafia e corruzione, per il conflitto d’interessi e per i diritti civili. Non si tratta più, insomma, di metterci “un po’ di giustizia sociale”, come con bonarietà emiliana diceva Bersani in campagna elettorale. Si tratta di fare proposte che invertano radicalmente il segno delle politiche dell’ultimo ventennio.

Per fare qualche esempio, l’economia ha urgentissimo bisogno di un massiccio intervento pubblico, i debiti con le piccole e medie imprese devono essere saldati e l’accesso al credito deve essere rimesso in moto immediatamente, le assunzioni e i consumi devono essere fortemente incentivati, i disoccupati e i sottoccupati devono disporre di un salario sociale che consenta la sussistenza, scuola, università e in generale la filiera culturale devono essere messe in grado di assorbire almeno una parte dell’immenso esercito di riserva di giovani – e in moltissimi casi non più giovani – laureati disoccupati (tra i quali il grillismo recluta gran parte dei suoi attivisti).

La Germania, la Francia e la Bce dovranno accettare questo programma, e le conseguenti correzioni degli accordi passati, se non vogliono trattare con un governo nominato da Gianroberto Casaleggio. Su questi temi, prima ancora che sui costi della politica, il grillismo può essere sfidato con efficacia e con successo, in Parlamento e nel paese. Il Partito democratico deve, insomma, avere la capacità di imprimere alla sua azione la svolta e il cambiamento che i suoi elettori gli avevano domandato con forza alle primarie. Per citare i Salmi, si deve “tramutare il lamento in danza”, ovvero convertire quella che viene considerata una sconfitta in un’opportunità, per molti versi unica, per cambiare l’Italia.